26/10/16

Guarda se vuoi c'è la strada

divagazioni di C. Taliento

Horse Frightened by a Storm, 1824 - Eugene Delacroix
(Cavallo spaventato dalla tempesta, Eugene Delacroix, 1824, watercolor, Museum of Fine Arts, Budapest)


"Guarda, se vuoi c'è la strada" m'ha detto con un gesto della mano, della serie "cammina", della serie "cammina, pivella". E io ho guardato la strada ed era proprio lunga, neanche lontanamente facile da percorrere, con la polvere salata e piante grasse, cactus ispidi e code di ramarri. Ero davvero miope, non vedevo molto bene. Poteva essere ancora più lunga di così, potevano esserci cose pericolose come le siringhe infette abbandonate da cui ero stata messa ben in guardia durante l'infanzia e che non avevo mai incontrato e ora, su quella strada, chissà. 
Non ho risposto. Anzi no, ho detto "beh va beh". Che in alcuni casi, basta e avanza. 
"Guarda, non c'è che la strada" m'ha detto il Maestro, l'unica persona che contasse qualcosa per me, qualcosa tipo l'orecchio, come per dire il mio ascolto. In realtà, io non ascoltavo bene. Camminavo. Non avevo talento, ma dovevo in qualche modo andare.
"E vai, vai" m'ha detto il Maestro con un cenno del capo. 
"Vado" ho detto. E davvero non ho detto altro. Che poi, non c'è mica molto da dire. In genere.
"Vado" ho ripetuto, ma mi sono fermata per guardare i miei piedi fermi nel punto di partenza. 
Il Maestro ha alzato le spalle. E ha sospirato come per tirare dentro la lacrima nel dotto.
"La strada è importante, ma se vuoi puoi restare" ha detto cambiando idea. E con la mano mi ha indicato una casa, piccola ,di legno in cui sarebbe stato difficile soffrire. 
Però non c'era che la strada e mi dovevo muovere. Altrimenti si faceva notte. Inoltre, mi ero rotta.
Però era bella quella casa, col Maestro, con le certezze e poche paure, senza ramarri, senza siringhe, piena di risate e tre orologi di parete che segnavano il Tempo in modo ordinato, sicuro, previsto. Invece, sulla strada si narrava che il Tempo potesse non passare mai e poi scivolare via, tutto insieme. Terribile.
"Si sta facendo notte" tuttavia ho detto con sarcasmo e nostalgia. 
"Guarda la strada"
"Grazie" ed avevo già percorso un metro.

19/10/16

Il ragazzo che voleva impiantare le branchie ai gatti

di Cristina Taliento


Il ragazzo che voleva impiantare le branchie ai gatti si era spesso vergognato della sua intelligenza. E questo lo rendeva stupido abbastanza da far sì che, in fin dei conti, potesse rientrare a pieno titolo nella Media.
Ed entrare nella media era una lotta quotidiana che gli dava una certa soddisfazione.
Il ragazzo che voleva impiantare le branchie ai gatti chissà per quale strano meccanismo, non voleva essere altro che il ragazzo dell'ultima fila, taciturno, pugno premuto sul mento. Non ambiva, tuttavia, ad eccellere nella solitaria parte dell'individio ferito e allora, quando gli altri lo guardavano, diceva qualcosa di vuoto, di ironico, senza senso.
Il ragazzo che voleva impiantare le branchie ai gatti, in realtà, voleva fare il chirurgo del collo o qualcosa di molto simile a quelle fantastiche diavolerie, ma credeva francamente di non meritare tanto, né di essere capace. Così raccontava in giro che due cose, anzi tre, lo affascinavano più di qualunque altra cosa: le branchie, il trapianto, i gatti.
"Che ragazzo giudizioso" diceva suo nonno masticando noccioline.
"Un visionario" commentava suo padre con sarcasmo.
Il ragazzo, tuttavia, in quel clima di mancata approvazione mangiava il dessert con più gusto. Non era un ribelle. Era un codardo. Non voleva trasgredire. Aveva paura delle sue capacità, di quella sua memoria a tratti troppo affilata, delle sue non volute abilità, di quella voglia di conoscere e imparare, quasi come un'ossessione, come se il Tempo non fosse abbastanza. Aveva paura del suo sguardo che mutava quando gli insegnavano qualcosa, della gioia che traeva nell'osservare le minuscole parti dell'infinito. Si svalutava, spaventato da quel piccolo mostriciattolo famelico che gli chiedeva Tutto. Il ragazzo si guardava a lungo nello specchio e, certe volte, vi intravedeva il futuro. Ciò lo faceva fuggire da sé.
"Non avere paura ad essere chi sei" gli dissi. A me piacevano i gatti, ma anche le frasi d'effetto.
Disse: "so quello che valgo".
Dissi: "va beh". E scartai una caramella. Era una caramella gigante, così mi uscì un: "non avee pauaa  di essee il miglioe".
Menomale che non capì.

08/10/16

Emicrania e studio


Continue cefalee,
e mormorii brachiali,
meglio dette parestesie.
Studiava in cucina
nell'ordine minimal del silenzio.

Non era disattenta, ma le faceva male la testa;
ascoltava una musica folk americana,
sapete, Woody Guthrie. 
Beveva caffè
in compagnia dei suoi capelli.

Temperava matite con un coltello,
mentre il Futuro aspettava che scegliesse.
Rispondeva coi triptani.

(C.T.)