30/06/16

Altrove in questo momento

divagazioni di Cristina Taliento




(Non io, Filippo Robboni)

Quaggiù si può correre tantissimo, saltare da un marciapiede all'altro girando l'angolo correndo, quasi scontrandosi con i passanti dietro l'angolo, si. Si può persino cadere, facendo attenzione a non svenire, attenzione a non disidratarsi troppo. E poi un giorno giri un angolo, buio magari, come tutti gli angoli della vita, dove non sai che diavolo ti può prendere alle spalle o di fronte, tutto un fotti fotti generale, per carità, si sa come vanno queste cose... e- dicevo- una mattina, giri un angolo, automaticamente, di corsa, senza pensare, con il tuo programma motorio ben alimentato da tazze di caffè e post-it deliranti sulla motivazione e il Futuro e su quello che sei e quello che non sei e tutte quelli spaventevoli discorsi su quello che diventerai. Pauuuraaaa.  E giri questo benedetto angolo, di corsa, ripeto, perchè certe cose accadono solo se c'è una certa cinetica di base che tat tat tat ti manda in vibrazione le cellule e i mitocondri. Non stai guardando, sei completamente dentro di te, ci sei eppure no. Giri l'angolo e prendi un autobus e chi lo sa dove stai andando. Tu lo sai? Io non lo so. Il mondo c'è, ma non importa, è un dato talmente scontato che può essere sottinteso e, di conseguenza, fatto evaporare. Bene, prendi l'autobus, uno di questi autobus arancioni con i sedili gialli e i posti per disabili sempre occupati da qualche rapper dei miei stivali. Prendi posto laggiù in fondo, insieme ai fantasmi degli introversi che popolano le ultime file di tutte le stanze dell'Universo. Nella tua testa c'è il jazz, c'è John Coltrane, ma ci potrebbe essere anche tuo nonno o chi ti pare, non fa niente. Strati e strati di occhi e persone e frasi e musichette: una montagna di roba. Ma lo sai tu e lo sanno tutti di quanto questo conti poco... L'importante ora è il momento, camminare, andare, quante dita vedi! Quante dita vedi? Vista sfocata. Non vedi un cacchio. Rimetti gli occhiali. Ah, lì c'è scritto "Pizzeria" avevo letto "Pinnerio". Adori giocare con questa tua buffa miopia. E mentre ti rimetti gli occhiali c'è qualcuno che ti sta guardando. Uno sconosciuto, dietro l'angolo, con gli occhi di pianto ti guarda e ti dice teneramente: "mi ricordi tanto una persona". In questo momento tu esci fuori dal mondo, diventi un ricordo che non ti appartiene. La persona continua a guardarti. La velocità della vita si oppone alla staticità di questo momento. Immobile. All'improvviso è come se anche tu ti guardassi dall'esterno. Ti senti parte di un fenotipo e di un dolore. Che non ti appartiene. 
Dici e non sapresti proprio cos'altro dire: "Le persone a volte si assomigliano".


15/06/16

Se ti costruisci una barca

di C. Taliento in memoria di S.R. Prof.


Robina YASMIN - Summer Fun - Diptych
(Summer fun, Robina Yasmin, oil)


"Se ti costruisci una barca puoi scegliere tu il colore, anche se è da principianti pensare subito al colore, come se fosse tutto lì, solo quello. Devi sapere che c'è da lavorare il legno e martellare i chiodi con delicatezza e attenzione" disse il vecchio Ferri mettendosi le mani sui fianchi e guardandomi come se non fossi capace. Era un chirurgo ortopedico in pensione. Io in quegli anni scrivevo canzoni. Più che altro, poi, m'intendevo di decoupage. 

"Beh- dissi io mentre mi sedevo su uno scoglio- forse è meglio iniziare".
"Iniziamo" disse Ferri.
E iniziammo a costruire una barca. Una barca piccola, in fondo. Grande come un letto. Però, bella. Una barca per l'estate, per meditare sulle nostre mediocrità, ridere delle nostre mediocrità, bere il caffè nel thermos, dormire.
Io avevo detto un sacco di parole a tanta gente e non sapevo più che dire. Ferri era anziano, poteva essere mio nonno e come la maggior parte degli anziani non aveva paura del silenzio. 
La barca, all'inizio, era un mucchio di assi recuperati qua e là da Ferri nel corso della sua lunga vita durante le passeggiate sulla spiaggia. Era riuscito a costruire una specie di telaio.
Io, figlia del progresso tecnologico, avevo comprato da E-bay un libro in inglese con le istruzioni su come fare. Così leggevo concentrata, mal interpretavo, mi pulivo gli occhiali con la maglietta, mentre Ferri martellava seguendo la sua testa e la naturale inclinazione di quei quattro legni storti.
"Secondo me, stai sbagliando" dicevo.
Ma il vecchio parlava poco e non si difendeva mai. Questa era per me la sua più grande dote. Non gliene fregava niente. Niente.
"Incredibile, è tutto storto. Annegheremo!".
Lavorava con la sigaretta tra i denti. Ogni tanto si fermava, prendeva la sigaretta con pollice e indice e guardava la barca, s'immaginava dei velieri. O magari no, chissà. Due colpi di tosse e si rimetteva a lavoro. E guai a chiedere consigli.

Una volta mi disse: "Blu è un bel colore". Che era il suo modo di coinvolgermi.
"Si, non è male" dissi alzando la testa dal libro.
"Blu è anche un bel nome"
"Mah non lo so se mi piace. È tipo Bleah, tipo che schifo". Si, in realtà mi faceva schifo, come, segretamente, tutto quanto. Il mondo mi aveva offeso. Va be', avevo sedici anni.

"Pensavo di prendere un cane. Lo chiamerei Blu" disse tagliando un pezzo di carta vetrata dal rotolo. 

"Che cane?"
"Un cane blu".

Io volevo un pastore tedesco. 
Arrivò il caldo, quello vero, giallo come i miei capelli che il sole iniziava a bruciare e a schiarire, giallo caldo giallo come il nostro ombrellone. Iniziai a lavorare anch'io, non avendo più voglia né di leggere, né di pensare. Era una barca piccola, ma noi eravamo dei perfezionisti. E dedicavamo tempo. E il tempo passava, ma non era abbastanza. Malgrado il suo enfisema e la mia adolescenza, non c'era posto migliore in cui entrambi non chiedevamo di stare. Insieme, ciascuno per i fatti propri. 

Fu una bella estate. Verso la fine di luglio, mentre pulivamo i pennelli sporchi di vernice blu, attaccarono sull'enorme cartello pubblicitario che ci sovrastava un manifesto dove c'era scritto: "La Vita è come un arcobaleno".  
Io pensai subito che volesse dire una cosa simile a "prima vai in salita e poi ti tocca rotolare verso lo sfascio".

Invece, il vecchio lesse la frase ad alta voce, con quella sua sigaretta sempre al lato della bocca. C'erano almeno quaranta gradi. Prima di parlare aspettava sempre qualche secondo. Disse: "In effetti, è colorata".

Io alzai un sopracciglio. Scettica com'ero diventata. 
E lui aggiunse: "Colorata e bella".
Già.
 Tutti i giovani irrequieti dovrebbero essere affiancati di tanto in tanto da anziani ottimisti e calmi dal sangue fermo. Però, a me manca proprio lui, non l'effetto della sua assenza su di me. 

05/06/16

Tutta la vita

di Cristina Taliento


Ci potrei mettere tutta la vita per cercare una Voce che arrivi alla gente.
Oppure tutta la vita per fuggire da quella Voce,
facendo orecchio da mercante,
decidendo, alla fine, di non voler comunicare niente.
E che sto bene così, stesa al sole senza parlare.

Ci potrei mettere tutta la vita per capire da che parte stare,
se dalla parte di chi composto sorride
o dalla parte di chi raccoglie le chiavi da terra insieme a quelle altre cose che sono cadute, risponde alle chiamate, si mette in macchina e parte.

Ci potrei mettere tutta la vita
a imparare come si salva una vita,
tutta la vita per imparare a mettere anche un solo punto di sutura,
tutta la vita per abituarmi alla morte,
e tutto questo tempo potrebbe non bastare per mettermi in salvo.

Ci potrei mettere tutta la vita per fermarmi un momento,
fermarmi per davvero, staccare la spina dai pensieri e non tormentare di richieste questo Tempo che vivo.
Ci potrei mettere tutta la vita per convincermi fino in fondo che quel che conta è stare bene, quel che conta è respirare per respirare, essere qui, sentire la tranquillità sulla mia pelle.

Ci potrei mettere tutta la vita per sentirmi davvero dove voglio essere,
nel posto esatto, all'ora giusta, tra tutto quello che sento, quello che ora sono,
e quel momento potrebbe durare un minuto oppure non arrivare mai.

Ci potrei mettere un casino di tempo a volere bene,
volere bene davvero o anche amare,
amare senza trattenere, senza andarmene,
soltanto essere qualcuno con cui fare un giro in Vespa la sera, qualcuno da cui è bello tornare.

Ci potrei mettere tutta la vita a imparare come guardare il mare senza la smania di volerlo conquistare o la paura di annegarci dentro.
Tutta la vita per guardarlo attraverso l'obiettivo decidendo, poi, di non fotografare,
che comunque non è lasciar perdere, né rinunciare, ma semplicemente far crescere le cose come piace a loro,
alla maniera di mio nonno che mi guardava pedalare da lontano in piedi sull'uscio di casa. Sorrideva.

Ci potrei mettere tutta la vita,
tutta la vita senza riserve,
per donare a chiunque io incontri,
senza troppe storie o parole,
una parte di me che non abbia neanche la più piccola sfumatura di una balla.

Ma per adesso resto qui a sentire il rumore del fiume mangiando una barretta di cioccolata,
perché ho ventidue anni e qualcuno ha detto che sono una bambina,
ho famissima e devo studiare un sacco. E dormirei,
dormirei almeno dodici ore.


01/06/16

Carlo Mezzotarlo - Ritratti dei tristi


di Cristina Taliento



(Sunday, Edward Hopper)

Passare attivamente il tempo, riempirlo di cento battiti al minuto per non pensare a te, arrivare alla sera con miliardi di cose fatte... è  esilarante. Qui si sta bene. Ordine dappertutto. Matite temperate. Anche le penne, se si potesse, le tempererei per poi metterle in fila, una a fianco all' altra, tutte sulla stessa Linea della Precisa Perfezione.  Si sta bene, ma con un certo sforzo. Sforzo fisico, soprattutto. Ogni volta che mi ricordo di te, devo intervenire, devo darci dentro per non farlo diventare un problema perché poi è come se tutte quelle maledette penne allineate cadessero per terra, scoppiando magari; poi, sarebbe come se io cercassi di raccoglierle sporcandomi le mani di inchiostro indelebile. Sangue, inchiostro, lacrime sono cose che io non posso soffrire, non sono adatto. Allora combatto contro l'entropia. Scalcio con solenne calma e giustifico l'apnea dietro un nodo di cravatta che, puntualmente, faccio finta di allargare quando qualcuno mi guarda allarmato. Eh eh, sto bene, tranquilli, è che inizia a farsi sentire il caldo e la mia angina non scherza. Meglio cardiopatico che abbandonato, ferito, lasciato. Certe cose vanno bene se hai vent'anni. A cinquantasette anni e un cane, meglio cardiopatico. 
Però, in realtà, mi tengo in forma. Per esempio, anche la prossima volta come l'ultima volta, alla velocità della luce, mi allaccerò  le scarpe da ginnastica fuggendo dalla voglia di riscriverti, quasi sbattendo il naso contro la porta per la foga di uscire in strada, guardando senza respirare se non ci sono macchine troppo vicine da finirci sotto, ma passando lo stesso, di corsa, se sono a quattro metri da me. Quattro metri non importa, non muoio mica, basta che scappo, basta che mi mando il cuore in tachicardia nel più breve tempo possibile. Eccheccazzo mi suoni, idiota! Ti ho visto! Ti ho visto! Non lo vedi che sto correndo, coglione! 
E ogni santa volta scopro di aver fatto il percorso in un tempo più breve. Diventerò un dannato campione di corsa oversessanta o cose del genere. Di questo passo sarò il codardo scaccia pensieri più veloce del West. E che mi importa! Che accidente importa! Tutte le volte me ne torno coi miei record e mi dico che sono forte, una roccia, e che non ti scriverò, io non ti chiamerò, non tornerò, non piangerò. Sono troppo stanco e sono troppo forte e se domani mi torna questo pensiero di scriverti può darsi che arrivo a 20 km e doppio tutte questi signori che corrono per dimagrire. 
E poi me ne andrò a dormire con una camomilla allungata con quello che trovo in cucina e che nemmeno mi piace, del rum, della birra, che schifo, del brandy, mentre in tv stanno dando ancora quello stupido Quiz estivo. Lo guarderò fino alla fine per vedere chi vince, per vedere anche la faccia di chi perde, per capire in chi mi rivedo.  E me ne starò lì a fissare i concorrenti perdenti che, alla fine, non li inquadrano poi molto dopo che hanno perso... a chi interessa. Fanno pena. Se ne stanno a sorridere alzando le spalle come i poveri stronzi, come me che mi porto via i capelli dalla fronte e mi sistemo meglio gli occhiali e non so che fare. Non so che altro fare. In piedi, in questa cucina dalle pareti bianche, con la caffettiera in bilico sui fornelli, i piatti ordinati, asciutti, perfetti. 
 Fino a quando non mi ricorderò più il tuo volto e nemmeno l'ombra del tuo volto o il tuo nome. Niente. Mi ricorderò soltanto del legamento crociato anteriore del ginocchio che, porca miseria, se ne sta andando in culo come questa mia innata delicatezza che tu, maledetta, dicevi di amare.
 Invece ora il mio cuore è un pugno di paglia. E forse è meglio se mi siedo, qui, chiudo gli occhi, tra le musichette degli spot pubblicitari, in questa cucina illuminata da un sole che proprio non vuole tramontare. Sono le nove, spegniti, che aspetti.