26/10/14

Noi non abbiamo capito


di Cristina Taliento


Aveva vissuto la sua adolescenza nei primi anni duemila e, nell'attesa che quella fase della sua vita finisse, aveva pazientemente ascoltato distesa tutti i cd dei Beatles e di Bob Dylan come forse facevano quei vecchi nati nel 40 o quei ragazzi alternativi che vestivano panni di tempi mai stati loro. Lei, sebbene nata nel solenne Novecento, di quel secolo ricordava soltanto le ultime, deboli, canzoncine dei varietà, i finali bagliori sull'acqua del gran casino pirotecnico che c'era stato prima, quando lei non esisteva. Ed era proprio strano, per lei, a volte, accettare di essersi persa tutta quella storia arrivando o meglio nascendo quando fuochisti, re, regine, inventori, combattenti e spettatori si rimettevano il cappello e si avviavano a casa, consapevoli che il grosso delle loro vite era stato vissuto. E lei si sentiva come se non avesse mai potuto capire. Capire abbastanza. Era nata nel Novecento, eppure ne stava fuori. Leggeva libri per nutrire la sua immaginazione di quel passato oscuro che pure pesava come un fantasma sulle sue spalle, ma quelle parole passavano per la sua mente con un altro filtro, che era il filtro del benestare, dei termosifoni, delle caramelle gommose, dei telefonini. Leggeva di rivoluzioni e povertà, di grandi silenzi e rumori bianchi e lei, ogni volta, aveva l'illusione di capire, ma poi pensava tra sé che, in realtà, non aveva capito perché non aveva provato mai niente del genere e un'emozione, un sentimento, che sia politico, patriottico, che sia di libertà contraria a tutto, lo si capisce soltanto se un giorno, in mezzo alla piazza, ti ha travolto, svuotato le tasche, incastrato contro al muro e lì, a sangue freddo, ti ha convinto, ti ha cambiato. Ecco cos'era la sua generazione. O cosa non era e avrebbero voluto che fosse. Erano tutti ragazzi con felpe cresciuti sui muretti ricostruiti dopo le guerre. I loro nonni li avevano buttati giù, i loro padri li avevano ricostruiti e loro ci scrivevano sopra "ti amo, ti prego torna". Ascoltavano racconti con le mani nelle tasche, un po' in disparte, con il dubbio leggero di chi non ha assistito. L'umanità adulta parlava loro con il lessico e le immagini, i furori del passato come se loro avessero potuto capirci qualcosa. Lo sbaglio più grande, pensava lei, era stato prender parte a quella riunione senza ammettere di non riuscire a comprendere. Dovevamo alzarci e urlare ai nostri nonni di non trattarci come i loro figli perché noi non avevamo visto quanto loro. Dovevamo non rispondere, piuttosto che tentare risposte sbagliate. Noi ci siamo immedesimati in una visione che non era la nostra, abbiamo voluto cose di cui non avevamo bisogno, che non desideravamo. Non lo so di chi è stata la colpa, ma la nostra sfortuna è stata arrivare per ultimi ed essere trattati come primi. Siamo figli di due ere così diverse e così vicine. Voi ci parlerete delle rose, ma le vostre rose non sono le nostre rose. Non lo sono mai state. Noi non abbiamo capito. 

20/10/14

Sala d'attesa

di Cristina Taliento

Oggi ero seduta su una sedia metallica fissata al muro di queste sale d'attesa che a dirla tutta sono un po' anche corridoi e a fianco a me si è seduto un vecchio e io ho pensato, vecchio saggio. Gli anziani mi calmano le ansie e le frenesie di questo mio cuore giovane. Però non ho detto niente all'inizio.
Doveva avere più di ottanta anni. Ha scartato una caramella Rossana. Gusto miele.
Poi me ne ha offerta una. Lo sapevo.
"Grazie".
"Prego!"
E siamo rimasti così per una decina di minuti. Con i vecchi non ti devi per forza applicare a trovare gli argomenti. Il silenzio va bene, loro sanno che non è mancanza di coraggio.
"Lavori qui?" mi ha chiesto indicando il camice che reggevo appeso all'avambraccio.
"Oh no no. Studio. Ancora. Eh"
"Ah. Brava". Ha aggiunto una frase in dialetto, ma non ho capito.
Ho sorriso.
"Il sogno di mio padre era che uno di noi figli diventasse medico, ma, sai, noi non si era tanto portati per la scuola...".
"Altri tempi" ho fatto io alzando le spalle.
"Lui voleva questo dopo la morte di mia madre. Tubercolosi. Nemmeno quarantacinque anni. Mah..."
Non sapevo che dire e se anche l'avessi saputo, avrei preferito non dirlo. Ma a volte è giusto dire qualcosa d'imperfetto.
"La medicina allora poteva poco. Un medico non avrebbe cambiato le cose".
"Quel giorno era tornata dalla campagna. Era sudata. Chiese di aprire le porte per fare corrente. Mio padre disse che così si sarebbe ammalata, ma io andai e spalancai porte e finestre. Ero un bambino, che ne sapevo. Però per colpa mia lei si è ammalata perché tutto quel vento che girava per casa le è entrato dritto dritto nel polmone, capisci? E nel giro di poco è morta".
I suoi occhi erano tristi.
"Ma signore...-ho detto io- ma signore, ha creduto fino ad ora che sua madre si è ammalata per questo?"
"Per questo e perché era tutta sudata. Dovevo ascoltare mio padre".
"Ma non c'entra. È un batterio. Se lo cresceva dentro già da prima, senza nemmeno saperlo e quel giorno si è solo mostrato. Poteva averlo preso anni prima. Magari lei nemmeno era nato oppure era cosi piccolo che non camminava".
Il vecchio mi guardava dubbioso. Cosi ho preso il cellulare. Ho cercato "mycobacterium tuberculosis" su Google. Sono comparse le immagini al microscopio, le colonie su piastra, i granulomi.
"Ecco, guardi". E gli ho spiegato un po' quello che sapevo. Lui ascoltava con un dito premuto sulle labbra.
Poi mi hanno chiamata. Era il mio turno.
"Beh allora io vado. Buona fortuna!"
Mi ha stretto la mano così convinto che per poco mi commuovevo. Chissà come deve essere stato l'aver scoperto da una studentella incontrata per caso di non essere il responsabile e nemmeno l'aggravante di quello sfortunato evento che era la morte della propria madre.

14/10/14

Il suo freddo, tranquillo, organizzato lavoro

di Cristina Taliento

Accadde. Eh... accadde! Un giorno, anzi, un mese, un mese intero, il matto Genda pensò e ripensò a quello che doveva essergli accaduto; trovò la causa, dopo averla cercata alla luce, nel buio, tra i suoi oceani solitari e dentro gli scatoloni impolverati. E quando la trovò, rise. Ma non tanto, fu una risata breve, in memoria di sé. Poi prese dalla tasca il suo fazzoletto di stoffa piegato a quattro e si asciugò gli occhi, anche se, a dire il vero, non era stata proprio una risata da lacrime. Si prese ancora un minuto per constatare il cambiamento, ovvero elevarlo allo stato di coscienza, dopodiché si grattò la guancia con il dito indice, chinò la testa e ricominciò il suo freddo, tranquillo, organizzato lavoro esattamente da dove l'aveva lasciato un mese prima, ovverosia prima che quel pensiero l'avesse travolto, come un fiume entrato con fragore dalla finestra della sua stanza, penetrato tra i cassetti della scrivania, fra tutti i suoi capelli, eccetera.
Quel fiume, o meglio quel pensiero scorreva più o meno così: chi sono diventato?
Il fatto è, caro fiume, pensiero, o cosa diavolo sei, che io, Genda Antonio, nato il 27 aprile 1941 a Filostagno provincia di Rema, sono stato chiamato, per settantasette imperituri anni, matto. Matto, già. Matto Genda, per l'appunto. Creatività, genio, leggenda, umorismo... matto, tu sei matto. E io, Cielo, non ce l'ho con nessuno! Non me la sono mai mica presa per questo, anzi! La gente mi chiamava così perché volevo cose che gli altri non volevano. Per esempio, gli altri volevano essere sempre apprezzati e approvati, mentre a me non importava un cazzo! Gli altri volevano un compagno per la vita e io volevo a tutti i costi finire di costruire quella benedetta, complicata, casa sull'albero. Io volevo correre cantando, volevo respirare rumorosamente, camminare in mutande sui marciapiedi di questo caldo mondo. E cheppalle, mio Dio, tutti quei grazie prego, grazie, si figuri, le pare, prego, grazie, si sieda, le offro il caffè, prego, prego, scusi. Ha detto, prego? Ho detto che preferisco essere matto piuttosto che legato e annichilito, svilito, emaciato, avvizzito come lei, madama.

Ecco chi ero. Questo ero.

Poi, era accaduto. È la natura.
Alla fine di quel mese, il matto Genda trovò la causa: un abitudinario. Lui era diventato un abitudinario. Uno che si alzava alla stessa ora, girava il cucchiaino nel caffè per lo stesso identico numero di volte, ripeteva lo stesso repertorio di frasi quando si trovava in compagnia, rispondeva ad ogni situazione con quei dodici modelli comportamentali che sebbene fossero autentici, restavano comunque dodici. E rise. Per due motivi. Il primo era che le cose stavano così e non avrebbe fatto niente per cambiarle, le cose. Il secondo era, invece, che mai come in quel momento si era sentito tanto matto, così matto come allora.

Il freddo, tranquillo, organizzato lavoro consisteva nell'evidenziare pagine di scienza. Era partito dalla fisica, poi era passato alla chimica e alla matematica. E con la naturalezza di chi segue una strada, ero finito nel sottilizzare a tarda età una mente che per tutta la vita aveva inghiottito tutto, voluto, cercato tutto. Più era specifica, confinata, la disciplina che studiava, più ne traeva piacere, dato che comunque abitudine non vuol dire perdita di diletto. S'innamorò della genetica, in particolare della genetica mendeliana. Trascorreva i giorni a incrociare alleli, a disegnare quadrati di Punnett. Passò a quadrati sempre più complicati, difficili anche per i genetisti più abili. La sua grafia divenne sempre più ordinata e se avesse potuto disinfettare quel sapere così già pulito, l'avrebbe fatto.

In quel mese, lui voleva soltanto capire. Un abitudinario quindi, rise fra sé, però mi piace, chi l'avrebbe mai detto.