30/08/14

Avventure di un Felicitiere - Il suo lungo indugiare

di Cristina Taliento


(immagine da www.theguardian.com)

Il Felicitiere aveva quasi trent'anni, ma, secondo lei, la sublimazione di sé stessa poteva concretizzarsi soltanto dopo la cinquantina. Comunque, quelle ultime luci di gioventù non le dispiacevano. La domenica, quando non lavorava, vestiva con maglioni leggeri extralarge, si sedeva sulla sedia a dondolo vicino alla finestra che dava sul mare e, con in mano la Settimana Enigmistica, pensava a come sbrogliare il Quesito della Susi, lasciato volutamente irrisolto fino alla sua giornata di riposo. Non ci metteva poi molto. Il Felicitiere era di quel genere di intelligenza che in una donna prende la strada della saggezza piuttosto che della sfida. E così, i suoi silenzi brillavano in uno sguardo pieno di domande; la sua solitudine leggera che si rispecchiava nelle tazze di caffè, dopotutto, si piaceva e allora non se ne andava, restava lì, tra le sue spalle e i suoi capelli che al sole prendevano le sfumature del grano. 
Ma quella domenica dei primi di settembre, a mille chilometri dal mare, nel bel mezzo del Baltico, il caffè che beveva era quello amaro dei pescatori. Girò ugualmente il cucchiaino per dodici veloci volte e bevve. Tutto questo mare, pensò. Tutto questo mare
Faceva il medico a bordo di quella grande nave che era la Regina Sofia, base d'appoggio nelle operazioni di montaggio di una piattaforma petrolifera, la seconda che il governo danese aveva deciso di impiantare durante quell'anno. Per lei non c'era tanto da fare. Passava le giornate sull'albero maestro a leggere i Complotti e Misteri d'Italia, alzando lo sguardo ogni volta che una raffica di vento le gelava il viso o scendendo da lassù quando un marinaio doveva salire a controllare l'orizzonte o la tenuta della vela.
"Is everything okay, doc?" capitava che le urlasse qualcuno dal basso.
"Yes, yes, thank you. Call me if you need me!".
 Con le Converse e la sciarpa, a prima vista più che un dottore sembrava la figlia adolescente di uno degli ingegneri che lavoravano al progetto, ma chiunque le avesse rivolto la parola avrebbe notato nei suoi occhi, dietro gli occhiali da vista, l'autunno, lo studio, la memoria e quel suo lungo indugiare, riflettere sui volti, sulle parole, sui sintomi, su quei piccoli dettagli che sembravano esistere solo nel suo mondo; quel suo mondo che, per questo, appariva pieno zeppo di cose, di occhi, persone, fatterelli, risposte date così per gioco e memorizzate all'istante, custodite e incatenate, pieno zeppo di particolari, di eritemi nascosti, di piccole cicatrici che solo lei aveva notato, pupille più grandi del normale, cuori più grandi del normale. E in quella affollata confusione di oggetti e anime, lei sarebbe dovuta sembrare, a quel punto, molto indaffarata, presa dalla foga di darsi risposte, di analizzare i dati. Tuttavia, era abbastanza calma, sebbene nessuno laggiù avesse mai capito il perchè i suoi capelli apparissero spettinati anche quando non tirava un filo di vento.

16/08/14

Il calciatore ingrassato

di Cristina Taliento


(A soccer match, Gaston Vaudou, 1920, National Football Museum, Manchester)


Quand'era ragazzo non si sentiva bravo, gli altri gli dicevano 'sei grande', ma lui si allontanava, si credeva mediocre e questo gli bastava per non voler ascoltare nessuno. Giocava se era innamorato, giocava quand'era disperato oppure confuso, ferito, annoiato. Di emozioni ne provava molte, diverse e tutte nel giro di poche ore, ma, comunque andassero le cose in quel paese per vecchi che era il suo cuore, lui ritornava in campo e con il sole e con la pioggia, arrabbiato o felice, il suo tiro da fermo era sempre lo stesso misurato bolide di collo del piede ruggente, destinato, come l'uomo alla morte, ad entrare in porta. Divenne il migliore, senza troppi complimenti. Ma i migliori, si sa, non vogliono le cose che gli altri vogliono e lui incominciò a sentirsi inopportuno, come se non sapesse più dove mettere i piedi, come se l'essere il più alto l'avesse portato a dubitare della statura del mondo. Calciò ancora qualche palla, ma in cuor suo aveva già smesso. Tutti gli altri non si erano accorti di niente, lo innalzavano al cielo, scrivevano il suo nome sui muri di case diroccate, ma il suo allenatore -occhio di falco taciturno -pensò: "hai smesso, campione, questo non è più il tuo posto". Iniziò a tirarsene fuori mangiando quattro volte di più di quanto non avesse mai fatto poiché era concetto abbastanza scontato che in un giocatore, al pari dei piedi e della tecnica, un metro importante per valutare la sua potenza fosse la panza, o meglio la sua inesistenza. E la stampa si accorse della presenza senza che passasse troppo tempo. Così se ne andò con il consenso dei suoi ultimi fedeli e, persino, degli ultras per i quali si poteva perdonare un fallo, due falli, un calciatore brutto, uno drogato, un cartellino rosso, ma mai e ancora mai un ciccione. 
Otto mesi dopo aveva preso trenta chili e del corpo da gladiatore che aveva, rimasero i trapezi e qualche muscolo superstite visibile, ogni tanto, dietro la coltre di grasso che, come una nube bianca, inesorabilmente lo avvolgeva. Mangia e mangia, divenne il giocattolo del pubblico a casa, il piacere segreto degli invidiosi, la risata sulla bocca dei simpatici e, malgrado il colesterolo alto e l'iperglicemia, il perspicace salvatore di sé stesso perché, qualche mese dopo, egli era la battuta che non faceva più ridere e un giorno, cambiando canale, si accorse che nessuno stava più parlando di lui, nemmeno i Tg privati, nemmeno il digitale terrestre. Si girò il telecomando tra le mani per un po', sentì i riflettori spenti, il suo sudore asciugato. E ascoltò  il silenzio che mai gli era parso così pieno e opulento e morbido, come d'altronde era lui.
"Ehi ragazzo, ma che ti è preso?"
"La libertà mi è presa, la libertà"
"Hai permesso che ti uccidessero la tua passione?"
"Si, fin da quando ho firmato quel maledetto contratto da sette milioni di euro"
"Ehi ragazzo, non prendermi in giro. Sono la tua coscienza, porta rispetto"
"Non sto prendendo in giro nessuno io, tantomeno me stesso, cara la mia coscienza"
"Oh si che lo stai facendo. Qual è il motore di ogni passione?"
"Le passioni sono fine a se stesse, si autoalimentano"
"Balle! Tu non ti saresti allenato con trentotto di febbre soltanto per il gusto di rincorrere un pallone in mutande in nome di una passione! Che cos'è una passione, poi? La gente, se non ha interesse, al limite si mette a fare giardinaggio per passione o si mette a infilare perline su di un filo, per dire. E comunque non passa tutti i santi giorni della sua giovinezza ad allenarsi. Tu volevi fare la tua scalata, ammettilo, volevi migliorare, diventare il primo, avevi fame, volevi valicare i muri dell'umano e dominare l'universo!"
"Si, forse, magari un tempo"
"E poi che è successo?"
"Eh..."
"Te lo dico io che è successo. Ti sei impegnato, hai stretto i denti come un lupo e hai ignorato il dolore e ci sei riuscito, sei arrivato in cima. In cima!"
"E non era come credevo"
"Bugiardo, ti racconti un sacco di cazzate, non so come fai"
"Okay, te lo concedo, ho avuto paura"
"Paura un accidente! Tu non hai paura, sei uno squalo. Ti conosco da quando sei nato e ti buttavi dallo scoglio di Santa Maria di Leuca e avevi otto anni".
"Allora dimmelo, tu, benedetta coscienza, che diavolo ho".
Ma era a quel punto, sempre lì, quando egli doveva giungere a una psicoanalisi esatta di sé, quando poteva guarirsi e perdonarsi, era allora che la sua Coscienza, così irriverente e saccente, brava a smentire, a far dubitare, all'improvviso, prendeva a rispondere in modo non curante, sarcastico, come se non avesse nemmeno la voglia di dar retta ai turbamenti del calciatore.
E dava risposte a raffica come:  "Depressione. Amputare subito. Hai ingoiato un rospo apatico e scorbutico. Sei un povero asociale. Chi ha pane non ha i denti. Forse sei davvero un gran bel pezzo di codardo. Zitto, ciccione. Hai un tumore psicologico. Ti stai per trasformare in uno scarafaggio e questa è la fase di rifiuto della tua vita precedente".
Così passarono gli anni e i chili e i quintali; non c'era programma televisivo che lui non conoscesse o marca di patatine che non avesse provato. Le cause dei suoi problemi dormivano di un sonno che con il tempo diveniva sempre più profondo...

Io ero la narratrice. In questa storia non c'entravo niente. Tra l'altro credo che finisse male. Cioè, avevo una certa attitudine nel narrare storie di atti incompiuti, sentimenti sospesi, piatti lasciati a metà.
Però mi vennero a chiamare.
"Ehi! Ehi!" fecero le Voci.
"Si?"
"A noi questo personaggio, sto calciatore panzone, ci piace"
"Sono contenta"
"Non hai capito. Non deve morire"
"Oh beh- dissi io tutta orgogliosa- sarà pure un mio diritto decidere chi cavolo deve o non deve morire"
"Senti, ragazzina saputella. Scrivere significa trovare le cause"
"Non credo. Scrivere è scrivere e basta. Prendi una penna e scrivi. Facile"
"Trova le cause e guarisci la sua anima".
Sbuffai. Mi alzai e me ne andai a fare altro. Poi, tornai. Entrai nella stanza del personaggio, ovvero del calciatore ingrassato. Presi il telecomando e spensi la tv affinché si accorgesse di me. Il che mi sembrava proprio una scena alla Dawson's Creek e, per adottare lo stesso registro, dissi un serio "dobbiamo parlare" aumentando a più non posso la profondità del mio sguardo. Il calciatore ingrassato, stravaccato sul divano, mi rivolse un'occhiata con il mento appoggiato sul petto, ritornando a guardare, subito dopo, la tv spenta.
Quindi, tornai sui miei passi e dissi:
 "Dove ti fa male?"
"Da nessuna cazzo di parte"
"I polpastrelli stanno bene?". Mi stavo divertendo.
Il calciatore ingrassato storse la bocca e non rispose.
"Ultimamente poi c'è un sacco di gente che sente come un pizzicotto sulla guancia. Tu lo senti?"
"No"
"Tanto meglio- dissi annuendo piano, fissando i suoi duecento e passa chili e ripetei- tanto meglio".
Sul tavolino a fianco al divano c'era un pacco di patatine aperto. Me lo presi e iniziai a mangiare.
"Mmm paprika!" esclamai.
"Che osa uoi da me?" disse con il mento ancora schiacciato sul collo e uno stuzzicadenti al lato della bocca.
"Lo sai, no?"
"No, on lo so"
"Voglio arrivare a farti cadere quello stuzzicadenti dalla bocca" dissi masticando patatine.
Il calciatore ingrassato strinse i denti.
"Non ci credo che non ti fa male da nessuna parte"
"Già"
"Nemmeno un sottilissimo fastidio?"
"Già"
"Complimenti. Io morirei se non mi facesse male niente, un dolore deve esserci sempre, non fosse altro per ricordarti che sei vivo"
"Doe ti fa mae?"
"Tipo qua!" mi inventai indicando la punta del naso.
"Ti fa mae il naso?"
"Si, sempre"
"Perchè sei una ficcanaso" disse e sorridendo si tirò un po' su.
"Potrebbe. Senti adesso, io devo andare a mare con i miei amici, non posso parlare più di tanto se non mi ascolti. Quindi, ascolta. Coltiva il tuo dolore. Se senti male da qualche parte, lo devi dire. Tu ti sei gonfiato a forza di sopportare e sopportare. Quando eri un campione c'era di sicuro qualcosa che non andava e, invece, di fare il diavolo a quattro, segnavi goal in silenzio, come un soldatino. Ammirevole, per carità, ma non aiuta"
"Ma io non avevo dolore davvero" disse il calciatore ingrassato guardandosi i palmi delle mani.
"Oh! Mica sto parlando di veri dolori. Altrimenti ogni casa sarebbe un ospedale e ogni cuore un'ambulanza che porta a casa i corpi... No, non è tanto questo. Sono piuttosto le nostre sensibilità ferite a perdere un po' di sangue, le aspettative che si svelano, un giorno, esistere soltanto nella nostra testa, tutti gli amori non ricambiati oppure tutte quelle volte che ci hanno detto: mi dispiace signore, il gelato al pistacchio è finito, noi non lo fabbrichiamo più"
"Il gelato al pistacchio non mente mai"
"Si, ma può mentire il gelataio. E allora che gran casino di sentimenti se non sai gestire una bugia. Alle volte, guarda, è meglio urlare, litigare piuttosto che far finta di non prendersela. Non è triste fregarsene?"
"Già"
"Ecco, tu, per come sei, esci dalla gelateria, deluso, tradito, un vero straccio. Ma poi ti blocchi, torni indietro e ad alta voce esclami: senta, signor gelataio, io lo so che è solo un complotto da quattro soldi questo e che il gelato al pistacchio lei ce l'ha eccome, nascosto nella sua cantina. Le do tre secondi per dire la verità altrimenti può star sicuro che io qui non ci ritorno nemmeno se assume il Presidente della Repubblica a implorarmi"
"Aah"
"Ci sono diversi modi per rendere manifesto il dolore o un formicolio o un leggero pulsare, ma il peggiore è ignorarlo, credimi. Scusa se ti ho finito le patatine, eh!"
"Grazie per la consulenza" disse il calciatore ingrassato rigirandosi lo stuzzicadenti in bocca.
"Il cielo si sta annuvolando- notai- ti fa male questo?"
"Non più di tanto. Le nuvole, la pioggia... non mi dispiacciono"
"Neanche a me. Però mi danno fastidio i jeans bagnati sulle ginocchia".
Il calciatore accennò a una specie di sorriso che poteva segnare la fine della nostra conversazione. Lo guardai per un attimo e mi dispiacque  per lui, per me, per i dolori nascosti, per i segreti degli uomini, per tutti gli interessati e i non interessati. Era soltanto la vita, potevi scriverci intorno, immaginarti storie, scandagliare cuori, ma chi lo sa cosa passa per la mente di un bambino che poi cresce, diventa vecchio e si ferma a guardare il lago delle anatre?

Presi il mio zaino, tirandone fuori l'ombrello, poi me lo misi in spalla.
"Ciao!"
Aprì la porta e scesi i gradini di corsa. Mi aspettavano le spiagge pomeridiane sotto un tempo da lupi.
Quando arrivai al cancello, però il calciatore ingrassato mi stava dicendo qualcosa:
"Ehi!" mi gridò a quaranta metri di distanza.
"Ehi!" risposi.
"Una cosa mi faceva male quando giocavo. Che venivo ammirato, circondato e lasciato solo. Ho sempre creduto che la solitudine fosse roba per me, invece no. Nessuno vuole stare solo. Specie se stai solo tra la gente".
Il tono alto della sua voce aveva disturbato il vicinato formato dagli altri personaggi che abitavano da tempi diversi la mia mente. L'Adolescente della Metamorfosi Idiota chiuse violentemente la finestra. Flacco Squidegno, matematico e filosofo, disse: "Silenzio!".
Così me ne stetti in silenzio, per rispetto della quiete pubblica e di una ferita confessata.
"Mi dispiace" mormorai e il calciatore ingrassato alzò le spalle come per dire che doveva andare così.
 Potevo recitare qualche citazione per cercare di ispirarlo, illuminarlo, salvarlo. Ma mi chiesi, a quel punto, se il calciatore non si fosse già salvato da solo. Tu conosci il tuo dolore, tu sai cos'è meglio per te.

Le Voci non furono proprio contente di questo finale. Loro amavano i finali gloriosi. Però quella sera, il calciatore ingrassato, dopo anni di divano, andò a mangiare il suo hamburger sulla panchina della villa comunale. E questo, per chi ragiona in termini di goal, non era un goal, ma quasi.

05/08/14

Spettacolare dentro

di Cristina Taliento



Ho guardato per giorni interi persone stagliarsi nel sole, sagome ridenti controluce. Forse è l'estate e allora calda l'anima e caldo fuori, salvo il cuore e liberi tutti. Salento, vecchio mio, mi sei mancato, tu spettinato dal vento, abbracciato dai mari.  Sei così vero nella tua musica di cicale e tramontana e voci che, dalla strada, salgono come edera fino alle finestre.  Parlaci con il tuo, il mio, dialetto sincero, illuminando le nostre menti di teneri arcaismi, raccontaci le storie che si mormorano gli ulivi tra loro, verdi argento sull'argenteo azzurro mare.
Ho guardato per giorni interi persone salire sulle scogliere, camminare nell'arte e c'eravamo tutti e con noi le nostre paure. Le solite paure dell'uomo. Se sei sensibile e sai osservare, esse le leggi chiare sui volti di chi è vivo; paura di non essere felice, paura di essere felice, paura di non essere il migliore e paura di esserlo. Vestiti, maschere e maschere di dignità, aspetto esteriore, fondotinta, fazzoletti per asciugare le lacrime, creme per combattere il sole, il nostro lavoro sempre pronto a uscire nei nostri discorsi, sempre pronto a qualificarci. E poi il mare. E che se ne frega il mare della tua quattordicesima? Il mare, come dire il nostro dentro. Niente, non se ne frega niente.
La Gente Davvero è diversa... Non vuole tutto quello che le propinano. Alla Gente Davvero non servono cinquemila amici virtuali, ventimila giga di memoria, tremila ore di palestra scontate del sessanta per cento. Dovremmo mostrare le nostre debolezze. Dovremmo respirare davvero, essere davvero, spogliarci di noi in modo da restare soltanto vivi, in piedi su una scogliera a guardare oltre l'orizzonte magnifico, nel nostro dentro spettacolare.

02/08/14

Avventure di un Felicitiere - Ora arriva e lo salva

di Cristina Taliento


(Baby portrait, Carel Willink)


Aveva già fatto quel sogno tre volte. La quarta scese dal letto, infilò la vestaglia con fare risoluto e, dopo aver trovato nella penombra il taccuino rosso, andò in cucina per scrivere ogni cosa. Il Felicitiere, seduto alle cinque e venti del mattino, due ore prima di entrare in servizio, si chiese per un attimo se non fosse stato meglio cercare di riprendere sonno. E mentre la sua coscienza se lo chiedeva ancora, il suo inconscio la faceva alzare per preparare il caffè e svegliarla del tutto. Accese la tv. Guerra, centocinquanta morti a Gaza, strinse le labbra. Aprì la finestra, ancora buio. Il Pastore Tedesco dormiva nel camino spento. Era estate.
Mentre cercava di ricostruire il sogno nella sua mente, disegnava distrattamente un divano: linee dritte e sovrapposte delimitavano uno spazio squadrato, ma smussato agli angoli. Suo padre faceva l'architetto. 

Uscì.

La strada che dalla sua casa portava al porto era avvolta da una nebbia calda che sembrava appartenere a un'altra stagione. Questo era stato da sempre l'effetto che le faceva l'alba. I pescatori tornavano dalla pesca notturna. Il Felicitiere vi intravide il vecchio Poggio da sopra il peschereccio rosso mattone.  
"Buongiorno" gridò dal molo.
"Salve, buongiorno! Ci imbarchiamo di lunedì mattina, dottore?" 
"Ancora no, signore!"
"Ah-ah-ah e che ci fate qui?" rise il pescatore.
"Niente" gridò il Felicitiere da venti metri di distanza e in mezzo il mare.
"Non è pericoloso per una ragazza venire fin quaggiù a quest'oraaaa?" 
"Non ho sentito, parla più forteeee"  
"Aspettami giùùù"

Era il fratello di suo nonno. Aveva fatto la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1974 aveva pubblicato un libro intitolato "Le rondini cieche", premio Mercatino dell'anno successivo. Era una raccolta di lettere di guerra, alcune vere, altre inventate. 
"C'è questo giro sul Mediterraneo, grande giro di pesca, due settimane- iniziò a dire Poggio mentre le veniva incontro- Tutti quanti presi nell'organizzarlo, sapessi che frenesia. Quando poi si mettono soldi in palio anche la formica più timida diventa un toro competitivo. Stessa cosa per Luciano. Lo conosci Luciano, no? Ha avuto un infarto due anni fa e sua moglie se la prende con me perchè dice che sono io a coinvolgerlo in queste ragazzate. Invece, se non venisse, mi farebbe un gran piacere, ma proprio grosso, almeno non dovrei preoccuparmi di ogni suo minimo malessere. Io confondo il mal di mare con i sintomi dell'infarto, che diavolo ne so io di quella roba. E insomma, stiamo cercando un medico che faccia parte dell' equipaggio. Aspettiamo risposte dall'Unione dei Pescatori, ma io ho chiesto a te, se te la senti"
"Non lo so, zio, vediamo. Dovrei farlo in periodo di ferie, vediamo".
"Vabbè, io te l'ho chiesto"

Ci fu un momento di pausa.
"Beh? Parla. Perchè sei qui? Hai materiale da romanzo?"
"No, solo un sogno"
"Bah, magari possiamo cavarci qualcosa. Dell'ultima storiella che mi hai raccontato ci ho scritto una novella per il giornale del paese, un progetto casereccio pieno di barzellette, proverbi, non ti immaginare chissà che. Poi te ne do una copia. Ce l'ho in barca, ricordami di dartela" disse infilandosi gli occhiali da vista per sentire meglio.
"Questo sogno... non so nemmeno se valga qualcosa"
"Te lo ricordi bene?"
"Più o meno"
"Vuoi un caffè?"
"Diluito?"
"No"
"Va bene".

La torre dei pescatori era in realtà una specie di faro troncato a metà altezza con le ampie vetrate e il tetto di plexiglas dietro cui si potevano vedere i gabbiani. All'interno c'era un bar, dove ognuno provvedeva a servirsi da solo. Le sedie erano di legno, dipinte di vernice verde. Il pavimento era fatto di piastrelle bianche con disegni blu. Il Felicitiere, ogni volta che entrava in quel posto, si ricordava come in una raffica di vento, del mercato dei fiori. Entrambi erano luoghi chiusi che avevano l'anima di un luogo aperto.
"Zucchero di canna o dietetico?"
"Normale, grazie"
"Avanti, narra!" la incalzò il vecchio sgranando gli occhi.
Il Felicitiere aprì le mani per scusare in anticipo una storia carente d'avventura.
"C'è un bambino. Otto anni, quell'età, si. E questo bambino sta guardando un film con un adulto un po' distratto che potrebbe essere sua madre o la sua baby-sitter, non ha importanza credo. Insomma, sono lì a guardare questo film. Sai, quelli che danno il sabato pomeriggio al posto del palinsesto feriale, hai presente, no?"
"Si"
"Ma mentre il bambino è in piedi con gli occhi squillanti puntati sullo schermo, l'adulto sonnecchia con la mano penzolante fuori dal divano. Ha ancora il pranzo sullo stomaco e poi per la stanza c'è ancora quell'odore di cucinato. Per farla breve, l'adulto vuole solo riposare in pace".
Il Felicitiere si fermò un momento per aprire la bustina dello zucchero. Ne versò il contenuto e prese il cucchiaino per girare. Poi si alzò gli occhiali dal naso e continuò.
"Ci sono alcune cose che non si riescono proprio a capire di questo sogno, ma di sicuro il bambino ha già visto il film, anzi è uno dei suoi preferiti, conosce le battute a memoria e si entusiasma talmente tanto che vuole a tutti costi coinvolgere l'adulto, il quale, beh, come ti ho già detto, non ci tiene poi molto. Quindi, a tratti lo prende per un braccio, ad esempio, e gli dice..."
La cameriera fece cadere a terra delle tazzine. Il vecchio e il Felicitiere si girarono a guardare.
"...e e gli dice, cioè il bambino dice: guarda ora! guarda! ora arriva e lo salva, ora arriva e lo salva!. L'adulto solleva appena la testa appoggiata sulla spalla e annuisce a occhi chiusi, giusto per dare soddisfazione al bambino. Il bambino, comunque, non si dà pace, è su di giri, vuole che l'adulto guardi la scena di quel film. Ora arriva e lo salva, continua a ripetere senza respirare".
"Che rompiscatole" commentò il pescatore bevendo l'ultimo sorso del suo caffè.
"Un po' si. Infatti l'adulto, a un certo punto, rimanda i suoi piani di un sonno tranquillo, si stiracchia e sbadigliando chiede: chi dei due personaggi è in pericolo? Il bambino, si gira un attimo senza capire. Nessuno, dice alzando le spalle"
"Aha" fece il vecchio mentre ascoltava.
"Allora, uno dei due è malato, afferma l'adulto. Malato? No no, risponde il bambino. Beh, allora, bambino- dice all'incirca l'adulto per metà curioso e per metà spazientito- perchè uno dei due ha bisogno di essere salvato?"
"Già, perchè?"
"Perchè è triste, risponde il bambino nel sogno".
"Ah. Finisce così?"
"No, finisce che il bambino indica il personaggio con l'armatura e dice: questo è il guerriero super forte! E l'adulto, senza capire, dice: ora il guerriero va e lo salva!. Così, un attimo prima di svegliarmi, il bambino dice ridendo: Ma no, è il contrario! Quest'altro qui salva il guerriero".