25/12/14

Auguri di buon Natale!



Quest'anno il blog ha compiuto cinque anni e dall'anno scorso le visite sono quadruplicate. Spero che non siano spam o robot! Comunque questo disegno che ho fatto è per fare i miei auguri ai lettori fedelissimi. Buon Natale a tutti voi e felice anno nuovo!!

Cristina

24/12/14

Sorridi, il vino c'è

di Cristina Taliento


(Edward Hopper)

Felice Sempreverde era visto da tutti come il fratello maggiore di Riccardo Sempreverde, due anni più piccolo, modello di bellezza e disinvoltura. Eugenia si innamorò non del secondo suo coetaneo, il ragazzo perfetto con il montgomery rosso, ma del primo, il lupo solitario in riva al mare. L'aveva osservato per anni da lontano alla fermata dell'autobus, seguendolo con lo sguardo appeso alla bocca morta. Egli era uno di quei ragazzi pensierosi come ce ne sono a bizzeffe sparsi per l'Italia; appassionato di libri, buon camminatore, uno di quelli che si siedono a parlare con gli anziani ascoltando con adulta comprensione i discorsi sul Tempo e sulla Morte. Faceva parte dell'ultimo sparuto gruppo di studenti iscrittisi a Lettere con inoppugnabile ardore e lui, d'altronde, si metteva alla stregua degli ultimi samurai, fedeli all'anima, al silenzio, alla verità profonda delle cose. I pomeriggi studiava seduto sul letto, le gambe incrociate. Leggeva con gli occhi e ricordava tutto. Poi si alzava, camminava fino all'aranceto al confine tra il paese e la città e si metteva sotto un albero di mandarini a pensare.
Eugenia per quanto amasse il lupo, per quanto lo venerasse in segreto come un idolo, aveva paura a dimostrargli affetto. Fino ad allora, infatti, non aveva frequentato che gatti, schivi, diffidenti all'inizio, ma che una volta avvicinati erano semplici da accarezzare, decifrare; mentre, secondo lei, con i lupi non era tanto il fatto di poter sostare al loro fianco, quanto di poterli sentire davvero vicini. E lei, sentendosi, al contrario, due volte più lontana da lui di quanto fosse possibile, si allontanava ancora di più dato che Amore è meglio che stia laggiù e noialtri quassù se non siamo del tutto i benvenuti o se non ci tende la mano. Quindi, preferiva rivolgersi a lui con frasi come "dimmi a che cazzo stai pensando ora", anche se avrebbe desiderato ascoltare quei pensieri più di qualunque altra cosa, oppure se ne usciva ridendo con "voi letterati amate disquisire amabilmente di stronzate" quando invece avrebbe dato i mesi e gli anni per poter riempire il tempo di letteratura e umanesimo, futurismo e suoi maglioni grigi, romanticismo, suoi occhi neri, neo-romanticismo... essenzialmente, per poter riempire il tempo di lui.
  Ma lui appariva troppo sicuro nell'incertezza. Si fermava a riflettere sulla vanità delle cose, finendo quasi sempre con la conclusione che nulla fosse vano. Serbava dentro di sè problemi grandi che gli altri non avevano come, ad esempio, la presunta o non presunta morte di Dio, la storia e la memoria, ovvero il lungo capitolo degli errori perseverati eccetera,  ma invece di uscirne provato, indebolito, o al minimo, inquietato, Felice Sempreverde era sereno nel suo campo di battaglia e più cresceva più si sentiva a suo agio in quell'enorme pantano che era la ricerca del senso della vita.
Una volta, durante le vacanze di Natale, tornarono sotto l'albero di mandarini ed erano passati tre anni dall'inizio di quella complicata, benedetta amicizia. Eugenia aveva avuto un paio di estati che l'avevano fatta crescere più di quanto non avessero fatto i cinque anni del liceo, ma il suo amore per lui non era cambiato così come quel senso di rassegnazione arcaica che lo accompagnava.
"Così ti sei fatto crescere i capelli" disse lei con quell'aria di perenne, finta, strafottenza. Come se si fosse trattato soltanto di una questione di capelli.
 Felice annuì, spostandosi il ciuffo castano di lato e poi indietro. Rispose che non aveva avuto il tempo di tagliarli e poi aggiunse che anche lei, si anche lei era un po' diversa.
"Beh sono bionda ora, accidenti. Anche il macellaio con la cataratta se n'è accorto!"
 Si fermò un attimo a guardarla. Poi staccò un mandarino dall'albero, prese a sbucciarlo in silenzio. Lo trovò troppo dolce, corrugò la fronte.
"Oppure è la tua fottuta bocca che vuole l'amaro" preferì Eugenia in tono scontroso guardandolo da cinque mentri di distanza.
Lui si buttò alle spalle gli ultimi spicchi che gli erano rimasti in mano. Si sfregò le mani e disse che doveva tornare a casa. Aveva una specie di appuntamento.
"Con chi?" non poté fare a meno di chiedere lei.
Felice si infilò le mani nelle tasche dei jeans, arricciando un po' l'orlo del cappotto. A quanto pare, una ragazza.
"Bada a non romperle bene le palle con i tuoi discorsi da finto intellettuale" disse e avrebbe voluto morire. Lui alzò gli occhi al cielo, le sorrise e poi se ne andò.
E Eugenia rimase lì con la sensazione di aver parlato da sola, come una mezza deficiente, la paladina degli amori non corrisposti, come l'ultima delle eroine in All Star Convers e cuore spezzato, centodieci battiti al minuto, mano ferma, la calma, la calma, la calma. Si tolse il cerchietto dai capelli e sarebbe potuto essere una corona. In quel caso, la regina che abdica al suo patetico trono. Oppure sarebbe potuto assomigliare a un diadema, come quello di Sailor Moon: "Potere del cristallo di luna dammi la forza per non perdere in questo modo la mia dolce tenerezza. Fa' che questo mio amore rifiutato non ristagni, che non si converta in arido cinismo".
Sospirò. Affondò le mani nel suo cappotto verde bottiglia. Poi le sembrò che fosse più il caso di sbuffare che sospirare, allora provò a riempire le guance d'aria, provò a illudersi di essere annoiata invece che triste, contrariata invece che disperata, ma non ci riuscì e allora sospirò di nuovo.
"Che ti tagliassero a pezzetti!" gridò, ma lui era già lontano. Alcuni corvi volavano sopra gli alberi.
"Che ti tagliassero a pezzetti!" ripetè per allontanarlo ancora di più da sè.
Craaaa-craaaa le fecero eco i corvi di Natale.

11/12/14

Quei ragazzi seduti là fuori

di Cristina Taliento


Là fuori ci sono dei ragazzi, avranno vent'anni. Parlano tra loro e ridono qualche volta, si sistemano il berretto tra un sorriso e l'altro. Denti Bianchi ama Occhiali più di qualsiasi altra cosa. Occhiali allora chiede:
"Qualsiasi altra cosa... tipo?". Più dell'infinita pienezza del cielo e del mare. Denti Bianchi non avrebbe mai pensato di perdere la testa per lei, le sue labbra screpolate, i suoi capelli spettinati e i "tipo" all'inizio della frase, le unghie corte di bambina, il suo sguardo da anziana. 
Giulia li guarda da lontano e tira su con il naso. E pensa allo scorso novembre, al basket nelle strade con il crepuscolo alle sedici e dieci, a quando Joe le tirò la palla e lei fece canestro. Vorrebbe entrare dentro, al caldo, chi non vorrebbe stare al caldo. Ma lei rimane lì fuori con le mani congelate nelle tasche del cappotto, la pressione bassa, il battito nei limiti, venti e passa anni a cui badare in testa e non entra, non suona. Si direbbe che stia aspettando, ma in realtà vuole non pensare a niente. Se fumasse, fumerebbe. Invece non fuma e resta lì come una deficiente, come un vagabondo raffreddato nella sera che attende la sua minestra di ego, urla e coscienza. Griderà mai? Alcuni bambini cantano una canzoncina di Natale, li ascolterebbe per ore. Sorride, si tocca la fronte. Griderà un giorno?
  Luca è seduto sui gradini del vecchio ambulatorio analisi. La paziente ha un glioblastoma. Valutare analisi, prescrivere esami. È uno studente al terzo anno, che diavolo ne sa. E comunque non lo cercano. Il medico, lì dentro, sa perfettamente cosa può fare, cosa non può fare. Luca ha preso per mano la figlia piccola della signora con il tumore nel cappello, l'ha accompagnata ai distributori automatici. "Mmm, guarda, ci sono i Lions al caramello!" ha esclamato facendo la mano ad artiglio. Ne ha presi due e li hanno mangiati con le spalle contro al muro senza dire molto. Poi, lui è uscito là fuori perché a stare dentro non ce la faceva più, si è buttato sul primo gradino, insieme ai muschi e ai licheni che crescevano a macchie verdi e gialle, e lì ha iniziato un pianto debole e sommesso.

15/11/14

Appunti scritti in novembre

di Cristina Taliento

(Blue Eyed Boy, Josh Brand ©2014 DeviantART)

Allucinazioni

Mi trovo al centro del fiume in una barchetta illuminata da due fari da discoteca. Le luci psichedeliche colorano di verde e viola i miei lunghi capelli castani. È autunno inoltrato, ma indosso ancora la maglietta a maniche corte degli Shins e non ho freddo. In mano stringo un bicchiere di vitamina C arancione effervescente. Le bollicine schiumano come un piccolo vulcano dal sapore d'antibiotico. Tre lupi passano in fila lungo l'argine. Mi fanno un cenno col capo. Ricambio.

Fondamenti per essere un esploratore del mondo

Pare che una buona parte delle cose che facciamo per divertirci, per vivere intensamente, porti poi a farci ingrassare, sia illegale, immorale o, ancor peggio, provochi il cancro.

Occhi azzurri

È una strana condanna ritrovare i tuoi occhi azzurri, te, negli occhi azzurri dei passanti. È uno strano stupore rivedere quel colore dentro forme di occhi diversi. Vederti diffratto, scomposto. Sentirti senza tuttavia riuscire a ritrovarti mai. Riuscire a ritrovarti mai più. 

L'ospedale di notte

Dicono che l'ospedale di notte sia un posto complicato, silenzio ovunque e tempi infiniti.  Io non lo so com'è di notte, visto da dentro. Però la sera, quando ci passo accanto sfrecciando  nel  gelo con la mia mountain-bike colorata e lo zaino in spalla, lì, illuminato nel buio, mi sembra soltanto il posto più fantastico del mondo, dove le persone aiutano le persone a salvarsi la vita. È bello, un pensiero banale e io sono troppo giovane.

Il signor ragazzo dottore

E c'era l'altro giorno questo ragazzo che raccontava in ascensore di essere morto dentro quando, dopo aver restituito con gesto atletico la palla a dei ragazzini, si era sentito rispondere da uno di questi: "la ringrazio davvero, signore!". E allora, lui, vicino al campetto del vecchio convento, con le mani nelle tasche del cappotto, alle cinque e cinque del pomeriggio, alla veneranda età di 27 anni, era morto dentro. Proprio così.

Sally e Luca

A quanto pare Luca ha lasciato Sally a colazione perché lui non riusciva a sentire niente più da molto tempo. A quanto pare Sally stava facendo le parole crociate quando lui le l'ha detto. "E Sally che ha fatto poi?". Ha posato la penna accanto al suo cappuccino fumante, l'ha fissato e ha detto: "Scusa". Poi, tempo poche ore e tutte le sue cose compresi i cruciverba e i maglioni di lana extralarge erano spariti con lei. A quanto pare Luca è rimasto seduto un giorno intero al tavolo della cucina. 

05/11/14

Alcuni luoghi

di Cristina Taliento

I giorni dispari, alle sette del mattino, esco di casa per andare a correre. Aziono la musica con una mano mentre con l'altra stringo le chiavi. Non è il massimo dell'organizzazione, ma mi trovo bene così. Nei primi dieci minuti le gambe mi portano via dalla città, o quantomeno più lontano possibile. Arrivo lungo il fiume e continuo con lo stesso ritmo mentre i primi autobus arancioni mi passano a fianco. Alcuni giovani laureati che vanno a lavoro in bicicletta mi sorpassano veloci con i loro impermeabili svolazzanti e li vedo allontanarsi, farsi largo tra gli operai dei cantieri, gli anziani con  il giornale, i gruppi di studenti ancora assonnati fermi sotto le tettoie. Questo sempre. È la rassicurante routine mattiniera del mondo che lascia le coperte e parte. Quota trenta minuti e centocinquanta battiti al minuto, giro a destra e percorro il ponte. Con parsimonia volto la testa per lasciare che la vista di quel quadro di un fiume all'alba mi entri nel cervello, dopo essere stato rimpicciolito e ribaltato dai miei occhi. Il mio luogo, ho pensato a volte, potrebbe essere questo. Alla fine, è fantastico. Tu vedi il fiume che ti scorre sotto i piedi e ai lati crescono alberi che d'autunno diventano ali di farfalle tutte diverse. C'è talmente tanta bellezza che potresti rimanere lì per sempre e morire con l'idea di non aver colto, contemplato, compreso abbastanza. La Bellezza è così, la senti sempre un po' lontana. E quando la avvicini, finisce che ne trovi i difetti. Forse è anche per questo che il mio luogo si trova un paio di chilometri più avanti, dopo una specie di parco con le altalene. Prima di arrivare ci sono tre guardiani fissi che non mancano mai. Il primo è una signora con un barboncino grigio. Il secondo un signore che spazza via dal marciapiede le foglie cadute e quando mi vede si ferma per non impolverarmi e io ogni volta lo ringrazio. Il terzo è un ragazzino dagli occhi puri fermo ad aspettare. Secondo me, l'autobus.
Non penso a loro finché non li vedo, ma tutte le volte che li vedo penso "ah già" e magari se non ci fossero, poi, lo noterei. Io, per loro, invece, sarò quella che corre. Magari hanno notato che i giorni pari io non ci sono. Mentre loro penso di si. Oppure no? Va be'.
Comunque. Passati i tre guardiani, accelero. L'ora di punta, il traffico, lo smog si avvicinano, mi inseguono. Se non aumento  la velocità mi prenderanno.  E poi posso pure andare in anaerobiosi, tanto chi se ne frega, tra due minuti arrivo al mio luogo e lì sono salva. Il mio luogo... se paragonato al ponte sul fiume, non è niente. Anzi, forse non ha nemmeno entità di luogo, non classificato. Come scriveva Melville: "It is not down of any maps. True places never  are". Per farla breve, è la panchina di una  fermata  del bus, ma la cosa strana sta nel fatto che questa panchina qua non guarda verso la strada, come dovrebbe essere, bensì dalla parte opposta, verso un liceo musicale abbandonato con cespugli di rovi e intonaco staccato. Non lo so se è bello dal punto di vista architettonico eccetera, non lo so se è bello in generale. E comunque il liceo è solo un dettaglio del luogo. La cosa più strana è che tu sei tra la vita, ma non ti vedranno perché l'occhio umano non si sofferma sui particolari agli angoli. Tu sei troppo nascosta lì dietro per attirare la loro attenzione. Sei seduta, ma è come se non ci fossi. È come spiare il mondo recitare, osservarlo dietro una tenda e scoprirlo sincero, coerente, lo stesso, insomma, di quando anche tu sei sul palco della vita. Ti accerti che le cose ci sono anche quando non sei in mezzo a tutto. Bah, non è tanto semplice da spiegare. 

26/10/14

Noi non abbiamo capito


di Cristina Taliento


Aveva vissuto la sua adolescenza nei primi anni duemila e, nell'attesa che quella fase della sua vita finisse, aveva pazientemente ascoltato distesa tutti i cd dei Beatles e di Bob Dylan come forse facevano quei vecchi nati nel 40 o quei ragazzi alternativi che vestivano panni di tempi mai stati loro. Lei, sebbene nata nel solenne Novecento, di quel secolo ricordava soltanto le ultime, deboli, canzoncine dei varietà, i finali bagliori sull'acqua del gran casino pirotecnico che c'era stato prima, quando lei non esisteva. Ed era proprio strano, per lei, a volte, accettare di essersi persa tutta quella storia arrivando o meglio nascendo quando fuochisti, re, regine, inventori, combattenti e spettatori si rimettevano il cappello e si avviavano a casa, consapevoli che il grosso delle loro vite era stato vissuto. E lei si sentiva come se non avesse mai potuto capire. Capire abbastanza. Era nata nel Novecento, eppure ne stava fuori. Leggeva libri per nutrire la sua immaginazione di quel passato oscuro che pure pesava come un fantasma sulle sue spalle, ma quelle parole passavano per la sua mente con un altro filtro, che era il filtro del benestare, dei termosifoni, delle caramelle gommose, dei telefonini. Leggeva di rivoluzioni e povertà, di grandi silenzi e rumori bianchi e lei, ogni volta, aveva l'illusione di capire, ma poi pensava tra sé che, in realtà, non aveva capito perché non aveva provato mai niente del genere e un'emozione, un sentimento, che sia politico, patriottico, che sia di libertà contraria a tutto, lo si capisce soltanto se un giorno, in mezzo alla piazza, ti ha travolto, svuotato le tasche, incastrato contro al muro e lì, a sangue freddo, ti ha convinto, ti ha cambiato. Ecco cos'era la sua generazione. O cosa non era e avrebbero voluto che fosse. Erano tutti ragazzi con felpe cresciuti sui muretti ricostruiti dopo le guerre. I loro nonni li avevano buttati giù, i loro padri li avevano ricostruiti e loro ci scrivevano sopra "ti amo, ti prego torna". Ascoltavano racconti con le mani nelle tasche, un po' in disparte, con il dubbio leggero di chi non ha assistito. L'umanità adulta parlava loro con il lessico e le immagini, i furori del passato come se loro avessero potuto capirci qualcosa. Lo sbaglio più grande, pensava lei, era stato prender parte a quella riunione senza ammettere di non riuscire a comprendere. Dovevamo alzarci e urlare ai nostri nonni di non trattarci come i loro figli perché noi non avevamo visto quanto loro. Dovevamo non rispondere, piuttosto che tentare risposte sbagliate. Noi ci siamo immedesimati in una visione che non era la nostra, abbiamo voluto cose di cui non avevamo bisogno, che non desideravamo. Non lo so di chi è stata la colpa, ma la nostra sfortuna è stata arrivare per ultimi ed essere trattati come primi. Siamo figli di due ere così diverse e così vicine. Voi ci parlerete delle rose, ma le vostre rose non sono le nostre rose. Non lo sono mai state. Noi non abbiamo capito. 

20/10/14

Sala d'attesa

di Cristina Taliento

Oggi ero seduta su una sedia metallica fissata al muro di queste sale d'attesa che a dirla tutta sono un po' anche corridoi e a fianco a me si è seduto un vecchio e io ho pensato, vecchio saggio. Gli anziani mi calmano le ansie e le frenesie di questo mio cuore giovane. Però non ho detto niente all'inizio.
Doveva avere più di ottanta anni. Ha scartato una caramella Rossana. Gusto miele.
Poi me ne ha offerta una. Lo sapevo.
"Grazie".
"Prego!"
E siamo rimasti così per una decina di minuti. Con i vecchi non ti devi per forza applicare a trovare gli argomenti. Il silenzio va bene, loro sanno che non è mancanza di coraggio.
"Lavori qui?" mi ha chiesto indicando il camice che reggevo appeso all'avambraccio.
"Oh no no. Studio. Ancora. Eh"
"Ah. Brava". Ha aggiunto una frase in dialetto, ma non ho capito.
Ho sorriso.
"Il sogno di mio padre era che uno di noi figli diventasse medico, ma, sai, noi non si era tanto portati per la scuola...".
"Altri tempi" ho fatto io alzando le spalle.
"Lui voleva questo dopo la morte di mia madre. Tubercolosi. Nemmeno quarantacinque anni. Mah..."
Non sapevo che dire e se anche l'avessi saputo, avrei preferito non dirlo. Ma a volte è giusto dire qualcosa d'imperfetto.
"La medicina allora poteva poco. Un medico non avrebbe cambiato le cose".
"Quel giorno era tornata dalla campagna. Era sudata. Chiese di aprire le porte per fare corrente. Mio padre disse che così si sarebbe ammalata, ma io andai e spalancai porte e finestre. Ero un bambino, che ne sapevo. Però per colpa mia lei si è ammalata perché tutto quel vento che girava per casa le è entrato dritto dritto nel polmone, capisci? E nel giro di poco è morta".
I suoi occhi erano tristi.
"Ma signore...-ho detto io- ma signore, ha creduto fino ad ora che sua madre si è ammalata per questo?"
"Per questo e perché era tutta sudata. Dovevo ascoltare mio padre".
"Ma non c'entra. È un batterio. Se lo cresceva dentro già da prima, senza nemmeno saperlo e quel giorno si è solo mostrato. Poteva averlo preso anni prima. Magari lei nemmeno era nato oppure era cosi piccolo che non camminava".
Il vecchio mi guardava dubbioso. Cosi ho preso il cellulare. Ho cercato "mycobacterium tuberculosis" su Google. Sono comparse le immagini al microscopio, le colonie su piastra, i granulomi.
"Ecco, guardi". E gli ho spiegato un po' quello che sapevo. Lui ascoltava con un dito premuto sulle labbra.
Poi mi hanno chiamata. Era il mio turno.
"Beh allora io vado. Buona fortuna!"
Mi ha stretto la mano così convinto che per poco mi commuovevo. Chissà come deve essere stato l'aver scoperto da una studentella incontrata per caso di non essere il responsabile e nemmeno l'aggravante di quello sfortunato evento che era la morte della propria madre.

14/10/14

Il suo freddo, tranquillo, organizzato lavoro

di Cristina Taliento

Accadde. Eh... accadde! Un giorno, anzi, un mese, un mese intero, il matto Genda pensò e ripensò a quello che doveva essergli accaduto; trovò la causa, dopo averla cercata alla luce, nel buio, tra i suoi oceani solitari e dentro gli scatoloni impolverati. E quando la trovò, rise. Ma non tanto, fu una risata breve, in memoria di sé. Poi prese dalla tasca il suo fazzoletto di stoffa piegato a quattro e si asciugò gli occhi, anche se, a dire il vero, non era stata proprio una risata da lacrime. Si prese ancora un minuto per constatare il cambiamento, ovvero elevarlo allo stato di coscienza, dopodiché si grattò la guancia con il dito indice, chinò la testa e ricominciò il suo freddo, tranquillo, organizzato lavoro esattamente da dove l'aveva lasciato un mese prima, ovverosia prima che quel pensiero l'avesse travolto, come un fiume entrato con fragore dalla finestra della sua stanza, penetrato tra i cassetti della scrivania, fra tutti i suoi capelli, eccetera.
Quel fiume, o meglio quel pensiero scorreva più o meno così: chi sono diventato?
Il fatto è, caro fiume, pensiero, o cosa diavolo sei, che io, Genda Antonio, nato il 27 aprile 1941 a Filostagno provincia di Rema, sono stato chiamato, per settantasette imperituri anni, matto. Matto, già. Matto Genda, per l'appunto. Creatività, genio, leggenda, umorismo... matto, tu sei matto. E io, Cielo, non ce l'ho con nessuno! Non me la sono mai mica presa per questo, anzi! La gente mi chiamava così perché volevo cose che gli altri non volevano. Per esempio, gli altri volevano essere sempre apprezzati e approvati, mentre a me non importava un cazzo! Gli altri volevano un compagno per la vita e io volevo a tutti i costi finire di costruire quella benedetta, complicata, casa sull'albero. Io volevo correre cantando, volevo respirare rumorosamente, camminare in mutande sui marciapiedi di questo caldo mondo. E cheppalle, mio Dio, tutti quei grazie prego, grazie, si figuri, le pare, prego, grazie, si sieda, le offro il caffè, prego, prego, scusi. Ha detto, prego? Ho detto che preferisco essere matto piuttosto che legato e annichilito, svilito, emaciato, avvizzito come lei, madama.

Ecco chi ero. Questo ero.

Poi, era accaduto. È la natura.
Alla fine di quel mese, il matto Genda trovò la causa: un abitudinario. Lui era diventato un abitudinario. Uno che si alzava alla stessa ora, girava il cucchiaino nel caffè per lo stesso identico numero di volte, ripeteva lo stesso repertorio di frasi quando si trovava in compagnia, rispondeva ad ogni situazione con quei dodici modelli comportamentali che sebbene fossero autentici, restavano comunque dodici. E rise. Per due motivi. Il primo era che le cose stavano così e non avrebbe fatto niente per cambiarle, le cose. Il secondo era, invece, che mai come in quel momento si era sentito tanto matto, così matto come allora.

Il freddo, tranquillo, organizzato lavoro consisteva nell'evidenziare pagine di scienza. Era partito dalla fisica, poi era passato alla chimica e alla matematica. E con la naturalezza di chi segue una strada, ero finito nel sottilizzare a tarda età una mente che per tutta la vita aveva inghiottito tutto, voluto, cercato tutto. Più era specifica, confinata, la disciplina che studiava, più ne traeva piacere, dato che comunque abitudine non vuol dire perdita di diletto. S'innamorò della genetica, in particolare della genetica mendeliana. Trascorreva i giorni a incrociare alleli, a disegnare quadrati di Punnett. Passò a quadrati sempre più complicati, difficili anche per i genetisti più abili. La sua grafia divenne sempre più ordinata e se avesse potuto disinfettare quel sapere così già pulito, l'avrebbe fatto.

In quel mese, lui voleva soltanto capire. Un abitudinario quindi, rise fra sé, però mi piace, chi l'avrebbe mai detto.

13/09/14

Note appuntate in settembre

di Cristina Taliento




Sul treno

Ieri ho preso il treno per tornare a casa. Passavo le ore del viaggio tra paragrafi di Batteriologia, crakers, auricolari, un romanzo giallo di serie B, quando i signori che mi sedevano davanti, il loro figlio e altri due signori che sedevano a lato si sono messi a parlare del Sud, del Nord, dell'estero, del mondo, del Sistema Solare, dell'Universo e poi dell'immigrazione. La signora seduta accanto al finestrino raccontava di quella sua collega commessa che mangiava solo cavolfiori per riuscire a pagare l'asilo ai figli mentre la famiglia di egiziani veniva esentata dalle tasse. Io ascoltavo, a tratti annuivo. Il figlio dei signori che invece mi sedevano davanti rimaneva muto con la mascella contratta e buttava occhiate lontane all'Italia che scorreva oltre i binari. I suoi genitori mi avevano detto di averlo accompagnato a Bologna per l'immatricolazione all'università. Quanto alla conversazione, sembrava che tutti avessero qualcosa da dire. Il padre del ragazzo ha tirato fuori la storia del crocifisso nelle aule di scuola. La commessa ha risposto elencando le sue esperienze da italiana nel Terzo Mondo e di quanto fossero stati inospitali con lei. 
Ad un certo punto, il ragazzo ha sbottato dicendo che siamo stati noi ad aver ridotto quei popoli così, che, senza offesa per la commessa non rispettata in Libia, ma noi italiani, lì, non avevamo lasciato un bel ricordo, che bisognava considerare la storia prima di prendere delle posizioni, che il petrolio, il colonialismo, il neocolonialismo, lo schiavismo, dovevano come minimo entrare nella coscienza di chi sbuffa nel sentire di gente, che anche questa volta, l'ha fatta franca sbarcando a Lampedusa. Aveva la voce pulita degli ideali, l'indignazione sana verso quei discorsi fatti in un treno dove ci si lamentava dell'aria condizionata troppo alta. I genitori lo contrastavano, facevano esempi. Lui rispondeva con il tono di chi sa di essere nel giusto, di chi crede di dire cose ovvie e si meraviglia del perchè gli altri non capiscano. Poi il ragazzo mi ha guardata e cercando forse una complicità che poteva nascere dal nostro essere quasi coetanei, ha detto: "O mi sbaglio?".
Io che ancora non avevo detto niente, io piena di dubbi, io che pensavo alla commessa che mangiava solo cavolfiori ho detto "no" e basta ed è stato esattamente allora che mi sono sentita, per la prima volta, merda e, se non vecchia, coinvolta e poco giovane. 

L'amore

Ogni tanto, quando posso, vado ad offrire la mia vogliosa incompetenza come volontaria in ambulanza. A volte si tratta di prendere i pazienti dall'ospedale e portarli in casa di riposo dove vivono oppure dalle loro case portarli a fare qualche radiografia o accompagnarli nei reparti. In un turno di cinque ore spesso mi accade di tornare a casa e aver dimenticato i visi sulle barelle che ho spinto. Ma l'ultima volta c'erano questi due coniugi da sballo su cui ci sarebbe davvero da scrivere un libro o, semplicemente, rifletterci su. Lui da 22 anni steso su un letto con il catetere, lei al suo fianco. Non c'è molto da dire, a parte che flirtavano come ragazzini. Il fatto è solo che l'amore non convenzionale, quello che c'è dove non ti aspetti, è un segno evidente di qualcosa che mi sfugge.

L'ombra

Curioso vedere come ad ogni tentativo di avvicinarti, tu ti allontani di tot metri proporzionali a quelli che ho fatto io per venirti incontro. A volte è curioso, a volte divertente. Ma come ogni gioco è bello se dura poco e siccome non è da poco che va avanti, si rallenta tristi come quella volta in treno, trentacinque gradi e passa nel sole di agosto a ripetersi la prossima volta non ci casco, la prossima volta cambia tutto.

11/09/14

Li hai visti

di Cristina Taliento


Li hai visti, si che li hai visti, i guerrieri disarmati della vita. Certo che li hai visti, così belli nel traffico, stanchi dal lavoro, con quelle loro mani parlanti ferme sul volante, quelle facce così vere e pulite, ingenue e sfrontate. Le persone forti dentro, le rocce dell'umanità. Una volta, almeno una, le hai viste e hai capito, hai smesso di replicare e le hai ascoltate; volevi giudicarle, invece le hai comprese. Per un attimo hai pensato di imitarle, ma eri così abbagliato da quell'esplosione di luce che sei rimasto lì a contemplare i loro sorrisi di purissimo diamante e non hai fatto niente. Allora sappi che erano quelle le persone grandi perché grandi erano le loro sensibilità e quella che a te è sembrata una cometa veloce, nata per caso, in realtà è una scia che si allunga nel tempo; quel tempo fatto da tutte le cadute e le camminate sulle ginocchia e le volte in cui si sono rialzati, il tempo a desiderare, credere, costruire, lavorare e poi, cambiare rotta per seguire il cuore. Si, perché tu li hai visti ed erano uomini, non cervelli sviscerati, non macchine, non eroi da scrivania. Hai capito che erano loro perché con loro ti sentivi diverso, come se fossi davanti al mare o davanti a qualche altro spettacolo pazzesco della natura. Ti sei fermato a guardarlo e hai fatto bene, ma ancora una volta sappi che quelle persone non si sono costruite, ma si sono formate. Nelle stanze delle loro adolescenze, nei loro perdoni, nel tempo passato a dare bellezza a ciò che l'occhio poteva soltanto rimpicciolire e capovolgere. Belle tra loro rughe o acne giovanili, quelle persone tu le hai viste e ti sei emozionato, un po' brillo hai barcollato sulla strada del ritorno.

06/09/14

Il momento nella vita

di Cristina Taliento

(The Lake Isle of Innisfree)


Ci sono momenti che non avresti mai pensato di iniziare la frase con 'ci sono momenti', ma è così ed è naturale perché sono solo momenti e sono tutto. Parte una canzone che non è la tua, una che mai avresti scelto e senti il cielo dentro, tu, le chitarre, i violini, gli uccelli delle diciassette e trenta, il libro con gli evidenziatori sopra, i cuori aperti appesi alle pareti. Hanno così tanto senso! Chiudere gli occhi non serve, non conta ballare, è lì, sei tu. E non importano nemmeno gli attimi colti, la felicità cercata, l'amore perso; tu sei nel mondo, tu batti il cinque, sorridi con la bocca aperta. Tu sei quello che volevi essere, hai il migliore aspetto che fa per te. Ogni instante che ti ha portato qui eri tu, eri casa.

30/08/14

Avventure di un Felicitiere - Il suo lungo indugiare

di Cristina Taliento


(immagine da www.theguardian.com)

Il Felicitiere aveva quasi trent'anni, ma, secondo lei, la sublimazione di sé stessa poteva concretizzarsi soltanto dopo la cinquantina. Comunque, quelle ultime luci di gioventù non le dispiacevano. La domenica, quando non lavorava, vestiva con maglioni leggeri extralarge, si sedeva sulla sedia a dondolo vicino alla finestra che dava sul mare e, con in mano la Settimana Enigmistica, pensava a come sbrogliare il Quesito della Susi, lasciato volutamente irrisolto fino alla sua giornata di riposo. Non ci metteva poi molto. Il Felicitiere era di quel genere di intelligenza che in una donna prende la strada della saggezza piuttosto che della sfida. E così, i suoi silenzi brillavano in uno sguardo pieno di domande; la sua solitudine leggera che si rispecchiava nelle tazze di caffè, dopotutto, si piaceva e allora non se ne andava, restava lì, tra le sue spalle e i suoi capelli che al sole prendevano le sfumature del grano. 
Ma quella domenica dei primi di settembre, a mille chilometri dal mare, nel bel mezzo del Baltico, il caffè che beveva era quello amaro dei pescatori. Girò ugualmente il cucchiaino per dodici veloci volte e bevve. Tutto questo mare, pensò. Tutto questo mare
Faceva il medico a bordo di quella grande nave che era la Regina Sofia, base d'appoggio nelle operazioni di montaggio di una piattaforma petrolifera, la seconda che il governo danese aveva deciso di impiantare durante quell'anno. Per lei non c'era tanto da fare. Passava le giornate sull'albero maestro a leggere i Complotti e Misteri d'Italia, alzando lo sguardo ogni volta che una raffica di vento le gelava il viso o scendendo da lassù quando un marinaio doveva salire a controllare l'orizzonte o la tenuta della vela.
"Is everything okay, doc?" capitava che le urlasse qualcuno dal basso.
"Yes, yes, thank you. Call me if you need me!".
 Con le Converse e la sciarpa, a prima vista più che un dottore sembrava la figlia adolescente di uno degli ingegneri che lavoravano al progetto, ma chiunque le avesse rivolto la parola avrebbe notato nei suoi occhi, dietro gli occhiali da vista, l'autunno, lo studio, la memoria e quel suo lungo indugiare, riflettere sui volti, sulle parole, sui sintomi, su quei piccoli dettagli che sembravano esistere solo nel suo mondo; quel suo mondo che, per questo, appariva pieno zeppo di cose, di occhi, persone, fatterelli, risposte date così per gioco e memorizzate all'istante, custodite e incatenate, pieno zeppo di particolari, di eritemi nascosti, di piccole cicatrici che solo lei aveva notato, pupille più grandi del normale, cuori più grandi del normale. E in quella affollata confusione di oggetti e anime, lei sarebbe dovuta sembrare, a quel punto, molto indaffarata, presa dalla foga di darsi risposte, di analizzare i dati. Tuttavia, era abbastanza calma, sebbene nessuno laggiù avesse mai capito il perchè i suoi capelli apparissero spettinati anche quando non tirava un filo di vento.

16/08/14

Il calciatore ingrassato

di Cristina Taliento


(A soccer match, Gaston Vaudou, 1920, National Football Museum, Manchester)


Quand'era ragazzo non si sentiva bravo, gli altri gli dicevano 'sei grande', ma lui si allontanava, si credeva mediocre e questo gli bastava per non voler ascoltare nessuno. Giocava se era innamorato, giocava quand'era disperato oppure confuso, ferito, annoiato. Di emozioni ne provava molte, diverse e tutte nel giro di poche ore, ma, comunque andassero le cose in quel paese per vecchi che era il suo cuore, lui ritornava in campo e con il sole e con la pioggia, arrabbiato o felice, il suo tiro da fermo era sempre lo stesso misurato bolide di collo del piede ruggente, destinato, come l'uomo alla morte, ad entrare in porta. Divenne il migliore, senza troppi complimenti. Ma i migliori, si sa, non vogliono le cose che gli altri vogliono e lui incominciò a sentirsi inopportuno, come se non sapesse più dove mettere i piedi, come se l'essere il più alto l'avesse portato a dubitare della statura del mondo. Calciò ancora qualche palla, ma in cuor suo aveva già smesso. Tutti gli altri non si erano accorti di niente, lo innalzavano al cielo, scrivevano il suo nome sui muri di case diroccate, ma il suo allenatore -occhio di falco taciturno -pensò: "hai smesso, campione, questo non è più il tuo posto". Iniziò a tirarsene fuori mangiando quattro volte di più di quanto non avesse mai fatto poiché era concetto abbastanza scontato che in un giocatore, al pari dei piedi e della tecnica, un metro importante per valutare la sua potenza fosse la panza, o meglio la sua inesistenza. E la stampa si accorse della presenza senza che passasse troppo tempo. Così se ne andò con il consenso dei suoi ultimi fedeli e, persino, degli ultras per i quali si poteva perdonare un fallo, due falli, un calciatore brutto, uno drogato, un cartellino rosso, ma mai e ancora mai un ciccione. 
Otto mesi dopo aveva preso trenta chili e del corpo da gladiatore che aveva, rimasero i trapezi e qualche muscolo superstite visibile, ogni tanto, dietro la coltre di grasso che, come una nube bianca, inesorabilmente lo avvolgeva. Mangia e mangia, divenne il giocattolo del pubblico a casa, il piacere segreto degli invidiosi, la risata sulla bocca dei simpatici e, malgrado il colesterolo alto e l'iperglicemia, il perspicace salvatore di sé stesso perché, qualche mese dopo, egli era la battuta che non faceva più ridere e un giorno, cambiando canale, si accorse che nessuno stava più parlando di lui, nemmeno i Tg privati, nemmeno il digitale terrestre. Si girò il telecomando tra le mani per un po', sentì i riflettori spenti, il suo sudore asciugato. E ascoltò  il silenzio che mai gli era parso così pieno e opulento e morbido, come d'altronde era lui.
"Ehi ragazzo, ma che ti è preso?"
"La libertà mi è presa, la libertà"
"Hai permesso che ti uccidessero la tua passione?"
"Si, fin da quando ho firmato quel maledetto contratto da sette milioni di euro"
"Ehi ragazzo, non prendermi in giro. Sono la tua coscienza, porta rispetto"
"Non sto prendendo in giro nessuno io, tantomeno me stesso, cara la mia coscienza"
"Oh si che lo stai facendo. Qual è il motore di ogni passione?"
"Le passioni sono fine a se stesse, si autoalimentano"
"Balle! Tu non ti saresti allenato con trentotto di febbre soltanto per il gusto di rincorrere un pallone in mutande in nome di una passione! Che cos'è una passione, poi? La gente, se non ha interesse, al limite si mette a fare giardinaggio per passione o si mette a infilare perline su di un filo, per dire. E comunque non passa tutti i santi giorni della sua giovinezza ad allenarsi. Tu volevi fare la tua scalata, ammettilo, volevi migliorare, diventare il primo, avevi fame, volevi valicare i muri dell'umano e dominare l'universo!"
"Si, forse, magari un tempo"
"E poi che è successo?"
"Eh..."
"Te lo dico io che è successo. Ti sei impegnato, hai stretto i denti come un lupo e hai ignorato il dolore e ci sei riuscito, sei arrivato in cima. In cima!"
"E non era come credevo"
"Bugiardo, ti racconti un sacco di cazzate, non so come fai"
"Okay, te lo concedo, ho avuto paura"
"Paura un accidente! Tu non hai paura, sei uno squalo. Ti conosco da quando sei nato e ti buttavi dallo scoglio di Santa Maria di Leuca e avevi otto anni".
"Allora dimmelo, tu, benedetta coscienza, che diavolo ho".
Ma era a quel punto, sempre lì, quando egli doveva giungere a una psicoanalisi esatta di sé, quando poteva guarirsi e perdonarsi, era allora che la sua Coscienza, così irriverente e saccente, brava a smentire, a far dubitare, all'improvviso, prendeva a rispondere in modo non curante, sarcastico, come se non avesse nemmeno la voglia di dar retta ai turbamenti del calciatore.
E dava risposte a raffica come:  "Depressione. Amputare subito. Hai ingoiato un rospo apatico e scorbutico. Sei un povero asociale. Chi ha pane non ha i denti. Forse sei davvero un gran bel pezzo di codardo. Zitto, ciccione. Hai un tumore psicologico. Ti stai per trasformare in uno scarafaggio e questa è la fase di rifiuto della tua vita precedente".
Così passarono gli anni e i chili e i quintali; non c'era programma televisivo che lui non conoscesse o marca di patatine che non avesse provato. Le cause dei suoi problemi dormivano di un sonno che con il tempo diveniva sempre più profondo...

Io ero la narratrice. In questa storia non c'entravo niente. Tra l'altro credo che finisse male. Cioè, avevo una certa attitudine nel narrare storie di atti incompiuti, sentimenti sospesi, piatti lasciati a metà.
Però mi vennero a chiamare.
"Ehi! Ehi!" fecero le Voci.
"Si?"
"A noi questo personaggio, sto calciatore panzone, ci piace"
"Sono contenta"
"Non hai capito. Non deve morire"
"Oh beh- dissi io tutta orgogliosa- sarà pure un mio diritto decidere chi cavolo deve o non deve morire"
"Senti, ragazzina saputella. Scrivere significa trovare le cause"
"Non credo. Scrivere è scrivere e basta. Prendi una penna e scrivi. Facile"
"Trova le cause e guarisci la sua anima".
Sbuffai. Mi alzai e me ne andai a fare altro. Poi, tornai. Entrai nella stanza del personaggio, ovvero del calciatore ingrassato. Presi il telecomando e spensi la tv affinché si accorgesse di me. Il che mi sembrava proprio una scena alla Dawson's Creek e, per adottare lo stesso registro, dissi un serio "dobbiamo parlare" aumentando a più non posso la profondità del mio sguardo. Il calciatore ingrassato, stravaccato sul divano, mi rivolse un'occhiata con il mento appoggiato sul petto, ritornando a guardare, subito dopo, la tv spenta.
Quindi, tornai sui miei passi e dissi:
 "Dove ti fa male?"
"Da nessuna cazzo di parte"
"I polpastrelli stanno bene?". Mi stavo divertendo.
Il calciatore ingrassato storse la bocca e non rispose.
"Ultimamente poi c'è un sacco di gente che sente come un pizzicotto sulla guancia. Tu lo senti?"
"No"
"Tanto meglio- dissi annuendo piano, fissando i suoi duecento e passa chili e ripetei- tanto meglio".
Sul tavolino a fianco al divano c'era un pacco di patatine aperto. Me lo presi e iniziai a mangiare.
"Mmm paprika!" esclamai.
"Che osa uoi da me?" disse con il mento ancora schiacciato sul collo e uno stuzzicadenti al lato della bocca.
"Lo sai, no?"
"No, on lo so"
"Voglio arrivare a farti cadere quello stuzzicadenti dalla bocca" dissi masticando patatine.
Il calciatore ingrassato strinse i denti.
"Non ci credo che non ti fa male da nessuna parte"
"Già"
"Nemmeno un sottilissimo fastidio?"
"Già"
"Complimenti. Io morirei se non mi facesse male niente, un dolore deve esserci sempre, non fosse altro per ricordarti che sei vivo"
"Doe ti fa mae?"
"Tipo qua!" mi inventai indicando la punta del naso.
"Ti fa mae il naso?"
"Si, sempre"
"Perchè sei una ficcanaso" disse e sorridendo si tirò un po' su.
"Potrebbe. Senti adesso, io devo andare a mare con i miei amici, non posso parlare più di tanto se non mi ascolti. Quindi, ascolta. Coltiva il tuo dolore. Se senti male da qualche parte, lo devi dire. Tu ti sei gonfiato a forza di sopportare e sopportare. Quando eri un campione c'era di sicuro qualcosa che non andava e, invece, di fare il diavolo a quattro, segnavi goal in silenzio, come un soldatino. Ammirevole, per carità, ma non aiuta"
"Ma io non avevo dolore davvero" disse il calciatore ingrassato guardandosi i palmi delle mani.
"Oh! Mica sto parlando di veri dolori. Altrimenti ogni casa sarebbe un ospedale e ogni cuore un'ambulanza che porta a casa i corpi... No, non è tanto questo. Sono piuttosto le nostre sensibilità ferite a perdere un po' di sangue, le aspettative che si svelano, un giorno, esistere soltanto nella nostra testa, tutti gli amori non ricambiati oppure tutte quelle volte che ci hanno detto: mi dispiace signore, il gelato al pistacchio è finito, noi non lo fabbrichiamo più"
"Il gelato al pistacchio non mente mai"
"Si, ma può mentire il gelataio. E allora che gran casino di sentimenti se non sai gestire una bugia. Alle volte, guarda, è meglio urlare, litigare piuttosto che far finta di non prendersela. Non è triste fregarsene?"
"Già"
"Ecco, tu, per come sei, esci dalla gelateria, deluso, tradito, un vero straccio. Ma poi ti blocchi, torni indietro e ad alta voce esclami: senta, signor gelataio, io lo so che è solo un complotto da quattro soldi questo e che il gelato al pistacchio lei ce l'ha eccome, nascosto nella sua cantina. Le do tre secondi per dire la verità altrimenti può star sicuro che io qui non ci ritorno nemmeno se assume il Presidente della Repubblica a implorarmi"
"Aah"
"Ci sono diversi modi per rendere manifesto il dolore o un formicolio o un leggero pulsare, ma il peggiore è ignorarlo, credimi. Scusa se ti ho finito le patatine, eh!"
"Grazie per la consulenza" disse il calciatore ingrassato rigirandosi lo stuzzicadenti in bocca.
"Il cielo si sta annuvolando- notai- ti fa male questo?"
"Non più di tanto. Le nuvole, la pioggia... non mi dispiacciono"
"Neanche a me. Però mi danno fastidio i jeans bagnati sulle ginocchia".
Il calciatore accennò a una specie di sorriso che poteva segnare la fine della nostra conversazione. Lo guardai per un attimo e mi dispiacque  per lui, per me, per i dolori nascosti, per i segreti degli uomini, per tutti gli interessati e i non interessati. Era soltanto la vita, potevi scriverci intorno, immaginarti storie, scandagliare cuori, ma chi lo sa cosa passa per la mente di un bambino che poi cresce, diventa vecchio e si ferma a guardare il lago delle anatre?

Presi il mio zaino, tirandone fuori l'ombrello, poi me lo misi in spalla.
"Ciao!"
Aprì la porta e scesi i gradini di corsa. Mi aspettavano le spiagge pomeridiane sotto un tempo da lupi.
Quando arrivai al cancello, però il calciatore ingrassato mi stava dicendo qualcosa:
"Ehi!" mi gridò a quaranta metri di distanza.
"Ehi!" risposi.
"Una cosa mi faceva male quando giocavo. Che venivo ammirato, circondato e lasciato solo. Ho sempre creduto che la solitudine fosse roba per me, invece no. Nessuno vuole stare solo. Specie se stai solo tra la gente".
Il tono alto della sua voce aveva disturbato il vicinato formato dagli altri personaggi che abitavano da tempi diversi la mia mente. L'Adolescente della Metamorfosi Idiota chiuse violentemente la finestra. Flacco Squidegno, matematico e filosofo, disse: "Silenzio!".
Così me ne stetti in silenzio, per rispetto della quiete pubblica e di una ferita confessata.
"Mi dispiace" mormorai e il calciatore ingrassato alzò le spalle come per dire che doveva andare così.
 Potevo recitare qualche citazione per cercare di ispirarlo, illuminarlo, salvarlo. Ma mi chiesi, a quel punto, se il calciatore non si fosse già salvato da solo. Tu conosci il tuo dolore, tu sai cos'è meglio per te.

Le Voci non furono proprio contente di questo finale. Loro amavano i finali gloriosi. Però quella sera, il calciatore ingrassato, dopo anni di divano, andò a mangiare il suo hamburger sulla panchina della villa comunale. E questo, per chi ragiona in termini di goal, non era un goal, ma quasi.

05/08/14

Spettacolare dentro

di Cristina Taliento



Ho guardato per giorni interi persone stagliarsi nel sole, sagome ridenti controluce. Forse è l'estate e allora calda l'anima e caldo fuori, salvo il cuore e liberi tutti. Salento, vecchio mio, mi sei mancato, tu spettinato dal vento, abbracciato dai mari.  Sei così vero nella tua musica di cicale e tramontana e voci che, dalla strada, salgono come edera fino alle finestre.  Parlaci con il tuo, il mio, dialetto sincero, illuminando le nostre menti di teneri arcaismi, raccontaci le storie che si mormorano gli ulivi tra loro, verdi argento sull'argenteo azzurro mare.
Ho guardato per giorni interi persone salire sulle scogliere, camminare nell'arte e c'eravamo tutti e con noi le nostre paure. Le solite paure dell'uomo. Se sei sensibile e sai osservare, esse le leggi chiare sui volti di chi è vivo; paura di non essere felice, paura di essere felice, paura di non essere il migliore e paura di esserlo. Vestiti, maschere e maschere di dignità, aspetto esteriore, fondotinta, fazzoletti per asciugare le lacrime, creme per combattere il sole, il nostro lavoro sempre pronto a uscire nei nostri discorsi, sempre pronto a qualificarci. E poi il mare. E che se ne frega il mare della tua quattordicesima? Il mare, come dire il nostro dentro. Niente, non se ne frega niente.
La Gente Davvero è diversa... Non vuole tutto quello che le propinano. Alla Gente Davvero non servono cinquemila amici virtuali, ventimila giga di memoria, tremila ore di palestra scontate del sessanta per cento. Dovremmo mostrare le nostre debolezze. Dovremmo respirare davvero, essere davvero, spogliarci di noi in modo da restare soltanto vivi, in piedi su una scogliera a guardare oltre l'orizzonte magnifico, nel nostro dentro spettacolare.

02/08/14

Avventure di un Felicitiere - Ora arriva e lo salva

di Cristina Taliento


(Baby portrait, Carel Willink)


Aveva già fatto quel sogno tre volte. La quarta scese dal letto, infilò la vestaglia con fare risoluto e, dopo aver trovato nella penombra il taccuino rosso, andò in cucina per scrivere ogni cosa. Il Felicitiere, seduto alle cinque e venti del mattino, due ore prima di entrare in servizio, si chiese per un attimo se non fosse stato meglio cercare di riprendere sonno. E mentre la sua coscienza se lo chiedeva ancora, il suo inconscio la faceva alzare per preparare il caffè e svegliarla del tutto. Accese la tv. Guerra, centocinquanta morti a Gaza, strinse le labbra. Aprì la finestra, ancora buio. Il Pastore Tedesco dormiva nel camino spento. Era estate.
Mentre cercava di ricostruire il sogno nella sua mente, disegnava distrattamente un divano: linee dritte e sovrapposte delimitavano uno spazio squadrato, ma smussato agli angoli. Suo padre faceva l'architetto. 

Uscì.

La strada che dalla sua casa portava al porto era avvolta da una nebbia calda che sembrava appartenere a un'altra stagione. Questo era stato da sempre l'effetto che le faceva l'alba. I pescatori tornavano dalla pesca notturna. Il Felicitiere vi intravide il vecchio Poggio da sopra il peschereccio rosso mattone.  
"Buongiorno" gridò dal molo.
"Salve, buongiorno! Ci imbarchiamo di lunedì mattina, dottore?" 
"Ancora no, signore!"
"Ah-ah-ah e che ci fate qui?" rise il pescatore.
"Niente" gridò il Felicitiere da venti metri di distanza e in mezzo il mare.
"Non è pericoloso per una ragazza venire fin quaggiù a quest'oraaaa?" 
"Non ho sentito, parla più forteeee"  
"Aspettami giùùù"

Era il fratello di suo nonno. Aveva fatto la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1974 aveva pubblicato un libro intitolato "Le rondini cieche", premio Mercatino dell'anno successivo. Era una raccolta di lettere di guerra, alcune vere, altre inventate. 
"C'è questo giro sul Mediterraneo, grande giro di pesca, due settimane- iniziò a dire Poggio mentre le veniva incontro- Tutti quanti presi nell'organizzarlo, sapessi che frenesia. Quando poi si mettono soldi in palio anche la formica più timida diventa un toro competitivo. Stessa cosa per Luciano. Lo conosci Luciano, no? Ha avuto un infarto due anni fa e sua moglie se la prende con me perchè dice che sono io a coinvolgerlo in queste ragazzate. Invece, se non venisse, mi farebbe un gran piacere, ma proprio grosso, almeno non dovrei preoccuparmi di ogni suo minimo malessere. Io confondo il mal di mare con i sintomi dell'infarto, che diavolo ne so io di quella roba. E insomma, stiamo cercando un medico che faccia parte dell' equipaggio. Aspettiamo risposte dall'Unione dei Pescatori, ma io ho chiesto a te, se te la senti"
"Non lo so, zio, vediamo. Dovrei farlo in periodo di ferie, vediamo".
"Vabbè, io te l'ho chiesto"

Ci fu un momento di pausa.
"Beh? Parla. Perchè sei qui? Hai materiale da romanzo?"
"No, solo un sogno"
"Bah, magari possiamo cavarci qualcosa. Dell'ultima storiella che mi hai raccontato ci ho scritto una novella per il giornale del paese, un progetto casereccio pieno di barzellette, proverbi, non ti immaginare chissà che. Poi te ne do una copia. Ce l'ho in barca, ricordami di dartela" disse infilandosi gli occhiali da vista per sentire meglio.
"Questo sogno... non so nemmeno se valga qualcosa"
"Te lo ricordi bene?"
"Più o meno"
"Vuoi un caffè?"
"Diluito?"
"No"
"Va bene".

La torre dei pescatori era in realtà una specie di faro troncato a metà altezza con le ampie vetrate e il tetto di plexiglas dietro cui si potevano vedere i gabbiani. All'interno c'era un bar, dove ognuno provvedeva a servirsi da solo. Le sedie erano di legno, dipinte di vernice verde. Il pavimento era fatto di piastrelle bianche con disegni blu. Il Felicitiere, ogni volta che entrava in quel posto, si ricordava come in una raffica di vento, del mercato dei fiori. Entrambi erano luoghi chiusi che avevano l'anima di un luogo aperto.
"Zucchero di canna o dietetico?"
"Normale, grazie"
"Avanti, narra!" la incalzò il vecchio sgranando gli occhi.
Il Felicitiere aprì le mani per scusare in anticipo una storia carente d'avventura.
"C'è un bambino. Otto anni, quell'età, si. E questo bambino sta guardando un film con un adulto un po' distratto che potrebbe essere sua madre o la sua baby-sitter, non ha importanza credo. Insomma, sono lì a guardare questo film. Sai, quelli che danno il sabato pomeriggio al posto del palinsesto feriale, hai presente, no?"
"Si"
"Ma mentre il bambino è in piedi con gli occhi squillanti puntati sullo schermo, l'adulto sonnecchia con la mano penzolante fuori dal divano. Ha ancora il pranzo sullo stomaco e poi per la stanza c'è ancora quell'odore di cucinato. Per farla breve, l'adulto vuole solo riposare in pace".
Il Felicitiere si fermò un momento per aprire la bustina dello zucchero. Ne versò il contenuto e prese il cucchiaino per girare. Poi si alzò gli occhiali dal naso e continuò.
"Ci sono alcune cose che non si riescono proprio a capire di questo sogno, ma di sicuro il bambino ha già visto il film, anzi è uno dei suoi preferiti, conosce le battute a memoria e si entusiasma talmente tanto che vuole a tutti costi coinvolgere l'adulto, il quale, beh, come ti ho già detto, non ci tiene poi molto. Quindi, a tratti lo prende per un braccio, ad esempio, e gli dice..."
La cameriera fece cadere a terra delle tazzine. Il vecchio e il Felicitiere si girarono a guardare.
"...e e gli dice, cioè il bambino dice: guarda ora! guarda! ora arriva e lo salva, ora arriva e lo salva!. L'adulto solleva appena la testa appoggiata sulla spalla e annuisce a occhi chiusi, giusto per dare soddisfazione al bambino. Il bambino, comunque, non si dà pace, è su di giri, vuole che l'adulto guardi la scena di quel film. Ora arriva e lo salva, continua a ripetere senza respirare".
"Che rompiscatole" commentò il pescatore bevendo l'ultimo sorso del suo caffè.
"Un po' si. Infatti l'adulto, a un certo punto, rimanda i suoi piani di un sonno tranquillo, si stiracchia e sbadigliando chiede: chi dei due personaggi è in pericolo? Il bambino, si gira un attimo senza capire. Nessuno, dice alzando le spalle"
"Aha" fece il vecchio mentre ascoltava.
"Allora, uno dei due è malato, afferma l'adulto. Malato? No no, risponde il bambino. Beh, allora, bambino- dice all'incirca l'adulto per metà curioso e per metà spazientito- perchè uno dei due ha bisogno di essere salvato?"
"Già, perchè?"
"Perchè è triste, risponde il bambino nel sogno".
"Ah. Finisce così?"
"No, finisce che il bambino indica il personaggio con l'armatura e dice: questo è il guerriero super forte! E l'adulto, senza capire, dice: ora il guerriero va e lo salva!. Così, un attimo prima di svegliarmi, il bambino dice ridendo: Ma no, è il contrario! Quest'altro qui salva il guerriero". 










26/07/14

Note di fine luglio

di Cristina Taliento


(I giocatori di carte, Paul Cézanne, fine '800, Musèe d'Orsay, Paris)



Vita adulta
Una cosa positiva della vita adulta è che per la maggior parte del tempo dovunque tu sia, con chiunque tu sia, ti senti a casa perchè la tua testa è casa, un posto che ormai conosci bene, armadi, tappeti, librerie e tutto il resto. Quel gradino che ti faceva inciampare quand'eri adolescente, adesso lo scendi di corsa o lo sali in un balzo senza nemmeno guardare. 

Chitarra. 
Appunti, libri, fogli dappertutto, appesi per la stanza , in strada, ai fili elettrici, stesi sugli spicchi degli ombrelli, sui giri cerebrali, mentali, fisici. E c'è sempre qualcuno- qualcuno- che -che- suona la chitarra. A immaginare, saranno ragazzi. Con i loro oceani solitari e scatole di chocopops. 

Nonno.
Non era tanto il fatto, come amava ripetere la prozia, che lui si fosse circondato di persone vere. Io credo che lui avesse attirato, come un magnete puro e senza molte parole, il lato più vero delle persone. 

Cezanne.
I Giocatori di Carte di Cezanne, stampati a colori e fissati al muro un po' storti con quattro strisce di scotch, mormorano, sopra i loro sigari fumanti, cose come: "lo passerà, ha studiato, ha fibra". "Dice che ha paura". "Ah-ah, è un samurai a cui piace lagnarsi, versami dell'altro whisky". "Basta così?". "Un altro dito, non essere timido". "Alla tua salute, ragazza. E anche alla mia. Ecco per te, invece, vecchio amico, una scala reale". "Eh bravo". 

Pioggia.
Dopo vent'anni inizi a preferire i sapori amari, il mare agitato, la tempesta. Il sole va bene, è sempre andato bene. Però la pioggia la capisci benissimo. Possiedi il senso della pioggia di tamburi battenti sull'asfalto. E sorridi. 

Anatomia.
E' la stessa spiaggia di sempre, ma gli altri anni c'erano soltanto corpi che prendevano il sole, che parlavano sulla battigia. Ora vedo mesogastri e peritonei in contro luce, mediastini, arti superiori che impugnano racchette, vene cefaliche, deltoidi, sternocleidi, punti di Murphy, di McBurney, di... passerà.

13/06/14

Ritratto neurofisiologico di gangster in azione

di Cristina Taliento

(non che ci metta la mano sul fuoco)


Ci sono questi tre gangster paranoici in bicicletta. Allora, Jack Pavimento è il primo. Fa: “Tu sei morto, Capodoglio, sei morto, ho detto”. Capodoglio è il secondo. “Accidenti, piantala di dire ho detto dopo la fine di ogni stramaledetta frase. Mannaggia!”. E il terzo è Carlo Julio Cesare, il quale dice: “No entiendo esta palabra, man-nag-gia.  Puedes traducir?”.
“Mal ne abbia” risponde calmo Jack Pavimento mentre solleva Capodoglio per il colletto della camicia.
“Mal ne abia? Es italiano?”
“Senti, bello…”.
 E avrebbe voluto dire: senti bello, smettila di crederti chissà chi per aver giocato due mesi in serie A, il tempo giusto per gonfiarti il petto come un tacchino e toccarti i capelli in campo per un milione di volte più altre minchiate del genere. La fortuna ti ha aiutato, ma poi sei stato scoperto per la schiappa che eri, che sei e che sarai sempre. Altrimenti, una volta fuori dal giro, non avresti preso trecento chili davanti al televisore, guardando e riguardando con occhi fieri e sognanti le partite in cui, poi, a dirla tutta, ti insegnavano invano a tenere palla come si deve.

Invece, la sua corteccia cerebrale ci ripensa. Si ricorda di quando anche lui era il Gallo di quell’enorme pollaio di Little Wing. Si ricorda, all’improvviso, di quanto fosse stata dura rinunciare a quegli agi offerti per un errore di valutazione ritrovandosi a covare uova e rancori come una chioccia alcolizzata. Ma lui, comunque, aveva smesso di bere e si era iscritto a uno di quei corsi serali per imparare l’alfabeto dei segni. Così aveva trovato un lavoro con i sordomuti, sposando Nora, vedente soltanto, e facendo con lei due bambini, vedenti, parlanti e, se non del tutto, per una buona parte del tempo, persino udenti.

“La differenza tra me e te, caro ragazzo- si limita a dire alla fine, anche se non c’entra niente- la sostanziale differenza tra te e me è che tu piangi quando le cose vanno male e io piango quando le cose vanno bene”. La solennità della frase giustifica il gesto di lasciar cadere Capodoglio per terra. Non è questione di pietà, certe volte, bensì di stile estemporaneo, improvvisato.

“Non sapevo piangessi, Jack” dice Tracy Goldmaster da dietro il balcone. C’è sempre una Tracy Goldmaster o Goldberg che versa alcol in questo genere di racconti. Figuarsi se non ce la mettevo in questo capoverso. Ciò che, però, la distingue dalle altre Tracy monocolor sono i capelli: mezzi biondi e mezzi castani. Grazie a questo vezzo la sua piatta e sterile personalità passa, invece, per una personalità eccentrica. Ma Capodoglio vedrà per sempre in lei anche altre doti più nobili e rare da sposare e servire per il resto della vita. In realtà, non è amore; è l’ossitocina.

“Perché a te, Tracy, tanto per sapere, piacciono gli uomini che piangono?” chiede con disinvoltura Capo massaggiandosi il collo sul punto in cui Jack Pavimento l’ha stretto. Con il massaggio, vengono stimolate le fibre di grosso calibro A beta che eccitano i piccoli neuroni della sostanza gelatinosa di Rolando, nella lamina II del midollo spinale. Questi neuroni liberano encefaline che vanno a inibire i neuroni interconnessi, bloccando la trasmissione delle vie dolorifiche.

“Mah, non saprei” biascica lei con la voce acuta, la chewing-gum in bocca e lo sguardo perennemente perso e annoiato. Così, vaghezza su dubbio, Tracy ha costruito intorno a sé l’immagine di una vera donna del mistero, ma la verità è che non sa mai niente, nemmeno di lei stessa, né della sintassi o del mondo. E se lo sa, non riesce tanto a parlarne. La sua aree cerebrali 44 e 45 di Brodmann che afferiscono al linguaggio sono un vero disastro.

“Los chicos no lloran. Hay una canciòn de los Clash...”
“Eh? Ma che sta dicendo?- chiede Jack andando verso il bancone- Gli uomini che…?”
“Non ho sentito” mormora Capodoglio alzando le spalle.
 “Boys don’t cry, es una canciòn de los Clash”
“Eh?”
“Non capisco”
“Senti, bello…”

E avrebbe voluto dire: senti bello, vivi in Italia da dieci anni, ma sei talmente pieno di te che pretendi che siano gli altri, gli altri che non hanno mai viaggiato, a decifrare la tua lingua che, poi, non è tanto diversa dalla nostra. Ma che ti costa imparare le parole più comuni e risparmiarci questo stancante gioco dell’ “io parlo e tu traduci”, questo snervante gioco dell’ “io sono forte e tu chi sei”, dell’ “io ho avuto la gloria e tu che hai”. La verità è che pratichi giochi che non sai giocare. Ti hanno messo in panchina e non fai che lucidarti le scarpe con i migliori lucida-scarpe e te ne vai in giro dicendo: “oh guardatemi, mi lucido ben ben le scarpe perché tra poco giocherò e li farò secchissimi”.
Intanto, la proprietaria del bar, vecchio medico in pensione –ottanta anni e seduta da venti nell’angolo a destra- chiama con la voce roca: “Jack, Jack! Da bravo, la rabbia è un sentimento che ottenebra l’anima. Ti leggo dagli occhi che ti stai facendo uno dei tuoi pensieracci. Non fare l’insicuro. Respira. Non vorrai esplodere ora come quella volta”.

“Quale volta?”
“Chiedilo a quei ragazzotti là fuori cosa dicono degli uomini che piangono”
“Nessuna volta, niente, dimentica”
“I ragazzotti non san mica un cazzo, il sistema limbico se ne sbatte delle leggi sulla virilità imposte da Leonida e da tutte quelle bistecche spartane”.
“Di quella volta in cui Jack ruppe tre setti nasali, sette costole, una clavicola, due metacarpi, una mandibola…”
“In medicina si dice coste”
“In questo bar diciamo costole”
“Due clavicole. Erano due clavicole”
“Non ci sto capendo niente. Tutti che parlano”
“Vecchia, piantala, ti prego. Capodoglio,  diglielo”
“Ha detto Pavimento di smetterla”
“Di’ a Pavimento, ah-ah-ah” dice la proprietaria del bar, seduta con le mani sul pomello del bastone.

Questa bizzarra confusione, chissà per quale circuito cerebrale, sta divertendo anche Tracy che, giusto per dire qualcosa, esclama: “Ragazzi, sono le sette e cinque!”
“Ehi ragazza, non puoi combattere il Tempo!” risponde Capodoglio con un occhiolino. Lei alza le spalle e poi cinguetta ridendo:
“Guai a te se mi tratti come a una delle tue femminucce, Capo”. La proprietaria del bar alza gli occhi al cielo.
“Non potrei. Sei uno squalo, bambina”.

Ma a quel punto, un gesto, un leggero gesto di mano tra i capelli, fa bloccare le lancette, il polline nell’aria, le gocce di brandy che colano dal bicchiere.

Jack Pavimento odia quando Carlo Julio Cesare si tocca i capelli.

“Ti avevo detto di non farlo” dice lentamente e vorrebbe mantenere il controllo, vorrebbe respirare con calma, con il ritmo di lenzuola che si muovono nel vento, ma la sua arteria temporale inizia a pulsare così insistentemente, il sistema simpatico lavora per il combattimento.
“Estàs hablando conmigo?”
“Si, contigo”.

Carlo Julio Cesare inarca il sopracciglio destro. Jack Pavimento sorride, ma è un sorriso strano, sinistro. Il muscolo zigomatico si contrae, sposta l’angolo della bocca in alto e in fuori e le guance si increspano, ma il muscolo orbicolare dell’occhio non viene contagiato da nessun sentimento. È un sorriso falso mosso soltanto dalla neocorteccia. Nessun coinvolgimento da parte dei gangli della base, del giro del cingolo o della corteccia limbica.

La padrona del bar raddrizza la testa per vedere meglio e mormora: “Oh Gesù, ci risiamo con il sorriso piramidale”.  Venne chiamato così dal neurologo Geschwind dell’università di Harvard per sottolineare la risposta volontaria esercitata dai fasci piramidali sui muscoli coinvolti.  

Poi, di colpo, cambio: assenza di espressione. E, ancora, cambio: rabbia. Segue: ripensamento, silenzio. Continua il silenzio. Un gatto entra nel bar e trova silenzio. Miao. Infine: rabbia.

“Senti bello, smettila. Mi stai facendo arrabbiare. Smettila di fissare quel cellulare, smettila di toccarti i capelli. Smettila, ho detto, smettila! Sei vanità e spazzatura. Smettila di metterti in posa e parlare con quel ghigno che si vuole credere affascinante. Tu mi hai rotto! Mi hai rotto, ho detto! Tu, ragazzo, devi vivere la vita come se non ti stesse guardando nessuno, come se non esistesse nessun ‘mi piace’ su cui cliccare sotto la tua faccia da schiaffi! Tu devi andare a confessarti! A confessarti, ho detto! Da un prete, esatto! Non sto parlando di peccati, per carità. Quelli li facciamo tutti. Si tratta, invece, di andare, sedersi nel buio, trovare dall’altra parte un orecchio che non sia uno stupido monitor, farsi il segno della croce e iniziare a cercare in quella tua coscienza avvolta da ragnatele una cosa profonda da dire, una cosa che non suoni come una stronzata preceduta da qualche cancelletto del cazzo”

“Jack, avanti, dai. Ti stai scaldando inutilmente. Lascia stare il ragazzo. Non ha fatto niente di male. Bevi un po’ d’acqua, forza- dice il medico in pensione indicando con la mano il bancone del bar- Tracy dai un po’ d’acqua a Pavimento. E fate uscire quel gatto, per favore. Questo non è un bar per gatti”.

“È  un idiota. Un vero idiota. Devo smetterla, si può smettere. Bisogna che qualcuno glielo dica. La vita non è questo campo da calcio che c’ha in testa. Questo mare di gente pronta a batterti le mani. Che poi, cheppalle, sarebbe, dico io, poter sapere sempre cosa ne pensino gli altri di ciò che ti riguarda! Che cosa ci vedi in un mondo di consensi! Prima lo capisce e meglio è. Lui crede che le persone si possano prendere e rinchiudere in queste celle sovietiche tutte uguali note anche come Profili Online e complimenti davvero a chi te l’ha fatto credere. E complimentoni –oni –oni a te che sei un gran pollo che ci sei cascato e che mentre eri in caduta libera, come un gran pollo, hai cantato: chicchirichì,  ho tutto sotto controllo”.

“Suvvia, Jack. Lo puoi capire da te che stai un po’ perdendo il filo del discorso. Abbassa un po’ la voce, dai. Ti guardano tutti”

“Nonna, che non  mi si dica quello che devo e non devo fare. Adesso sento che devo tirargli uno schiaffo”. Jack Pavimento  guarda il soffitto per calmarsi. Aspetta che quello schiaffo si verifichi come il destino, come le sette e cinque che diventano, di colpo, le sette e dieci, come le nuvole che diventano, da un momento all’altro, pioggia sui vetri del bar.

“Uno schiafo?- chiede Carlo Julio Cesare portandosi, di nuovo, i capelli indietro.

“Vedi! L’ha rifatto! Me lo fa apposta! Me lo fa apposta!”. Così, accade. In uno scoppio di sinapsi, accade. Jack Pavimento si fionda sicuro su Carlo Julio Cesare. Il programma motorio prevede che il braccio destro venga ampiamente, teatralmente, esteso con lo scopo di intimorire l’avversario e, soprattutto, aumentare l’intensità del tiro. Il cervelletto e i nuclei della base correggono, controllano l’azione affinché l’annunciato schiaffo si realizzi. Nello stesso istante, grazie al riflesso vestiboloculare, per mantenere la fissità dello sguardo, i bulbi oculari di Carlo Julio Cesare si girano nella direzione opposta a quella della testa che, saggiamente, si piega per schivare il colpo. Ma non c’è inclinazione che tenga per sfuggire ai circuiti riverberanti di Jack Pavimento, medaglia d’oro 1988 alle olimpiadi del Salone del Boxe di Via Kennedy, numero 8, scala A.
Intanto, cocktail di ormoni vengono sparati in circolo come polvere rosa in litri di  vino rosso.

Loro due sono lo spettacolo. Le menti di tutti sono catturate per intero dai loro movimenti. Il resto svanisce, non viene colto dalla loro attenzione, semplicemente sfuma: c’è, eppure potrebbe anche smettere di esserci. Quindi, nessuno si accorge del coltello che, sfuggito dalla mano di una ancora più distratta Tracy Goldmaster, cade a picco dal balcone, infilzandosi tra il collo e il tronco di quel povero gatto che era entrato nel bar quando c’era silenzio.

(No, dai, vabbè, questa è brutta. Non dovevo scriverla così cruenta. Un cadavere di gatto, poi. Infilzato, per giunta. Oh no, dovrei cancellare. Oppure aggiungere: c’è, eppure potrebbe non averlo visto nessuno. E voi? Vi fidereste dell’esistenza di qualcosa che nemmeno il personaggio più arido di fantasia possa testimoniare d’aver visto?)



(continua)

20/04/14

Ortensie celesti



(Poplars on the banks of the river Epte, Claude Monet, 1891)

Per altri quei giorni erano -giovani rose-,
gridi di rondini silvestri,
fiori in bocca
dentro cappelli sull'erba...
mentre per noi erano ortensie celesti
e jeans, camicie celesti
su cieli celesti
e riflessi d'acqua su flauti argentati,
perchè noi credevamo,
noi volevamo;

avevamo, io credo,
un sogno leggero,
più delicato del vostro.


(C. Taliento)

18/04/14

Attitudini dei guerrieri

di Cristina Taliento


Ho iniziato a frequentare il Gruppo perchè volevo scrivere di loro, consegnare l'articolo all'editore e darmi alla macchia per tutta la primavera e, possibilmente, l'estate, chiudermi poi in una di quelle spiagge deserte dove la scogliera scende a lama sul mare e fare in pace il mio freddo, tranquillo, organizzato, lavoro dalla mattina alla sera, lanciando l'osso al pastore tedesco per cinque minuti ogni due ore, guardare le stelle, suonare il flauto ai granchi, infine dormire. 

Loro erano queste specie di guerrieri contemporanei che dopo un po' finisce che vuoi assomigliarli. Facevano tutti gli specializzandi in medicina per cominciare. Tranne Gianna; lei era una fisica, ventitré anni, laurea magna cum laude, le Converse strappate, gli orecchini di perla, english humor, un vocabolario arguto, innamoramenti frequenti, l'iride sensibile. 

Erano consapevoli della loro bellezza, intelligenza e giovinezza. Parlavano un lessico che li divertiva molto, che avrebbe fatto ridere soltanto loro e che, per un certo tempo, comunque, è rimasto anche nelle mie orecchie. Per esempio, usavano frasi come: "Non fare il cutaneo". Mi chiamavano, poi, Piccolo Omento. 
Avevano tutti la risata sicura dei grandi cavalieri senza paura. Bevevano birra e nessuno fingeva, nessuno voleva impressionare. 

Il pomeriggio di marzo in cui ho varcato la porta della loro veranda al sole, cespugli e cespugli di lavanda mi sono entrati negli occhi e nelle narici. Francesca stava leggendo ad alta voce qualcosa dalla Settimana Enigmistica.
"Mio Dio, è meraviglioso" gli faceva eco Marco.
"Avreste dovuto essere lì, giuro. Marta che risolve 'sto Quesito con La Susi, ritira il premio e lo rispedisce con il biglietto: questa merda rimettetevela nel culo. Ho riso fino al prolasso dell'utero". 
"Ah-ah certo" ha detto il Dottore premendosi il pugno sulla bocca come per trattenere un rutto. 

Io me ne stavo accanto alla lavanda con quel fare taciturno da sorella minore capitata per caso tra gli amici dei fratelli più grandi e annotavo sul telefono alcune delle uscite che sentivo da laggiù.
"Ehi, piccolo omento" mi hanno chiamata d'un tratto.
"Che fai?" ha chiesto Daniele.
"Niente"
"Come niente? Hai idea di quanti sforzi filosofici e tribolazioni fisiche, quante apnee, infarti, ci vogliano per ricreare anche un solo abbozzo di Niente?".
Ho riso. Avrei voluto avere con me la mia lista di domande. Quei guerrieri forse non avevano risposte, ma pacche virtuali sulle spalle a volontà. Così, li ho messi alla prova.
"In realtà, scrivo di voi. Sul cellulare. Devo scrivere un articolo per una rivista letteraria. Voi mi incuriosite".
"Più degli unicorni gay?" mi ha chiesto Riccardo.
"Come?"
"Lascialo stare-ha sospirato Angela- sta attraversando il periodo in cui formula battute sulla presunta omosessualità di animali mai esistiti per depistare l'ascoltatore. Conta i millisecondi del verificarsi della tua reazione per capire qualcosa della tua personalità".
"Tutti mi dicono che sono un libro aperto"
"Oh... - Gianna ha scosso la testa si rigirava una sigaretta tra le dita  - nessuno è un libro aperto. Chi dice di esserlo lo è meno di chi si proclama complicato".
"Voi siete libri aperti?" ho chiesto trattenendo il respiro.
"Siamo libri in volo, squadernati dal vento" ha risposto Angela appoggiando una mano sulla spalla di Marco. 

Così ho pensato che avrei potuto dare il meglio di me stessa per diventare loro amica, ma poi mi sono detta che chi è in volo, sosta da solo, per qualche attimo e poi riparte nel sole. Erano campioni del Pensiero e ci avrei scommesso che avevano avuto adolescenze solitarie e defilate nelle tane delle loro menti. Dovevano essere lettori di classici.  C'era un po' di Tolstoj nelle loro larghe spalle. Avevano nello sguardo la sicurezza infusa dall'alba il giorno dopo la battaglia e i movimenti dei coraggiosi che hanno esplorato emozioni e lande sconosciute, addii e nostalgie così forti da toglierti il respiro. Ma loro invece di uscirne abituati, immunizzati, secondo me, piangevano tutte le volte nel buio, digrignando i pugni nella carne per poi scendere le scale di corsa e sperimentare il nuovo e rivivere il vecchio come la prima volta. Si, ciò che mi metteva quasi a disagio non era la nudità del loro animo, ma la padronanza con cui maneggiavano quei loro grandi sentimenti, trattandoli come se fossero la cosa più importante, piantandola di archiviare e andare avanti nello stile prediletto da uomini e donne definitesi 'in carriera'. E li intuivo capaci, tuttavia, di dimenticare, con la stessa forza rapace, per una decisione più alta, sempre in memoria di loro, anni di battaglie cosiddette personali, guerre civili del proprio orgoglio e scommesse col destino. Vivevano nel lusso di essere consapevoli della vita e dei suoi giochi di luce. Tutte le montature, i trucchi della regia, erano stati svelati, dissezionati sui tavoli operatori, studiati sotto la lampada delle loro scrivanie, presi come soggetto delle loro battute e, intorno a un tavolo di birre, sinceramente derisi. Forse erano così perchè lavoravano di fianco alla Morte, sostando insieme a lei ai lati di letti d'ospedale, con in mano cartelle cliniche e fonendoscopi o, forse, il loro lavoro non c'entrava, ma c'entravo i motivi che li avevano mossi ad agire, le ragioni che li avevano asciugato le lacrime, fatto battere il cuore. 


"Ti unirai a noi domenica prossima?"
"Non lo so" ho detto strizzando gli occhi per il sole.
"Ti abbiamo già stancata?"
"No, è che vi preferirei da vecchi, ultrasessantenni". Ho portato la mano sulla fronte per farmi ombra.
"Perchè?"
"Siete guerrieri, anime immense, ma siete consapevoli e pieni di voi come sirene che si compiacciono del loro canto. Mi piacete molto, la vecchiaia vi renderà tutto quello con cui avrei piacere di trascorrere del tempo" ho mentito. In realtà, dovevo darmi alla macchia, suonare il flauto ai granchi. Quelle cose lì. 
"L'avevo detto, Francesca, che non era  un piccolo omento, ma un grande omento"
"Magari ti puoi unire a noi tra mezzo secolo"
"Chissà..."

Così me ne sono andata e avevo un articolo e tre soldi di dubbio e due di coraggio, tanto per dirla alla De Gregori maniera. 

04/04/14

Arterie di Luca, arterie di Sally

di Cristina Taliento

(Cose nascoste, Filippo Robboni, 2011, oil on canvas)


Ieri Sally e Luca hanno mangiato da  noi. Non so come sia iniziata, ma a un certo punto, tra la frutta e il caffè, si sono messi a litigare. Sally ha detto, tamburellando le dita: "I sentimenti o ce li hai o non ce li hai". E io ho alzato le sopracciglia annuendo, frenandomi in tempo dall'esclamare un piuttosto assente 'eh beh si beh'. Masticavamo quasi tutti noccioline. Era domenica. Ho appoggiato la testa allo schienale della sedia. Domenica come quelle domeniche in stile finestra aperta sul giardino, tende mosse dal vento, cielo azzurrino, sorrisi lontani di vecchi che guardano i giovani essere giovani; come quelle domeniche in cui si interrompe l'argomento della conversazione per alzare il volume del televisore e ascoltare i ricordi malinconici di Albano sull'amore passato con Romina.
"Chi vuole il caffè?" ha chiesto mia madre alzandosi in piedi. Sally si guardava gli anelli, aprendo e chiudendo le dita. Sally e Luca hanno un dalmata, un gran bel figliolo di cane. Si chiama Ernesto.  
"Io no, grazie" ha detto Luca mostrando il palmo della mano. L'avambraccio svelava vene superficiali bene in vista. Notai il giro della vena cefalica sulla faccia posteriore. 
"Ora nessuno beve più il caffè!" ha esclamato qualcuno.
"Hai ragione, quando è moda è moda- ha continuato qualcun'altro- E tutti non fanno che dire di non guardare la televisione. Ma dico io, Santo Cielo, se state tutto il tempo su quelle X-Bos, Twitter..!"
"Si dice X-Box".
Domenica, come quelle domeniche in cui si cita Gaber e le persone sono "tutti" e l'Io è Accidente di Niente, purissimo Fico Secco, emerito Nada de Nada. Pur tuttavia, si diventa quasi stanchi di questa intelligenza che ce la trova sempre su ogni frase triste e felice e quindi, si sorride, si piega la testa di lato e si risponde citando, magari, Guccini, anche se queste domeniche, per forza di cose, non possono essere sempre di settembre

E poi è avvenuto il miracolo anatomico dell'immaginazione. Mentre parlavano di mode, li ho sezionato i tegumenti e i muscoli pellicciai, bloccandomi a un pelo dal recidere qualcuna delle loro arterie. I soggetti, o meglio, i modelli erano Sally e Luca, appunto, coppia di professori in pensione, padroni di un dalmata di nome Ernesto, amanti della pesca e della psicologia, principalmente Freud, di cui hanno una fotografia appesa nel salotto. Quieta quieta, li ho spogliati delle meningi, asportando lobi di encefalo qua e là. 
"Non ti ho mai chiesto per cosa stia Sally" ho detto per far voltare il modello verso di me, con le sue orbite rivolte verso la mia finta ingenuità.
"Sallustia!" ha esclamato Luca ridendo e tossendo. Fumava. Riuscivo a vedere i suoi polmoni neri dentro la gabbia toracica. 
"Ah... sul serio?" ho chiesto mentre seguivo con la mente il decorso dell'arteria mascellare interna e delle sue collaterali.
"Salvatrice" ha concesso mentre le anastomosi facciali si vasodilatavano un po'. 

Così, mi è venuta in mente una poesia dell'insieme 'Spazzatura' sul divertente andante perchè appartenente al sottoinsieme 'Romantico/macabro'. Una poesia-tipo-così: 

"Amo te e il tuo arco venoso del giugulo,
 il tuo sorriso e le tue arterie alveolari.
Posso sposare, per cortesia, la tua arteria cerebrale anteriore 
che porta nutrimento al tuo encefalo a cui sono sì affezionata?
La tua aorta mi apparterrà. Tu prendi la mia.
Anzi, anastomizziamoci! 
Diventiamo unico sistema cardiocircolatorio,
a due cuori."

A questa idea, ho detto ridendo: "Se vabbè!"
"Non ti piace il nome Salvatrice?". Le cavità orbitarie dei presenti si sono di colpo riempite di occhi integri, normalissimi occhi che avevano iniziato a fissarmi. L'incanto chirurgico era finito.
"E' il nome del Signore- ho detto su due piedi e poi ho aggiunto- al femminile". Il che era, come dire... vabbè.