21/07/12

L' ingegner punkabbestia

di Cristina Taliento

(The Catcher in the Rye, loooooool)

Era la notte di New York. Seduti sul cornicione di un grattacielo altissimo ridevamo delle nostre scarpe abbandonate nel cielo assurdo e nero. Il traffico veloce delle auto in corsa mi pareva un magma fiammante di lava. Avevo dimenticato gli occhiali da vista sul tavolino del telefono.
"Chissà dove vanno le anitre quando il lago è gelato. Tu lo sai?" mi chiese come aveva fatto nel suo libro.
"Non lo so, no- e pensai ad un fazzoletto per soffiarmi il naso- ci sono tante cose che non so. Milioni e milioni. Però quando le vengo a sapere, mi dispiaccio".
"Mi dispiaccio" ripetè e scoppiò a ridere.
"Eh si, è normale. Una cosa è così bella nella mia mente quando non esiste... Poi viene ad esistere e rovina tutto".
"Che commediante sei" esclamò e respirò gran parte dell'aria fredda che girava intorno a lui.
"Hai un fazzoletto?" chiesi. "Yep" rispose controvoglia. Girò la mano in tasca e prese un gran fazzoletto di stoffa rossa.
"Grazie, sembra una tovaglia!"
"Era la tovaglia del mio topo Bob" sorrise guardando i grattacieli di fronte.
"E ce l'aveva un cognome questo Bob?" gli domandai prima di soffiarmi rumorosamente il naso. "Sono diventata spiritosa- spiegai subito- è successo due o tre mesi fa. Insomma, una mattina mi alzo e mi viene voglia di canticchiare in falsetto e di rispondere alle frasi di tutti con brillanti risposte di genio. Ah... come sono intelligente".
"Quella non è intelligenza- mi corresse- quella è nevrosi"
"Non confondiamo!" dissi mostrando i palmi delle mani e riconobbi spaventata quel gesto nel gesto di mia madre.
"Che te ne freghi... siamo tutti nevrotici" disse alzando le spalle.
"Uffa Holden, che palle che sei!"
"Che vuoi adesso?"  si girò a guardarmi senza capire.
"Niente. Mi dai fastidio. Dovresti prendere in considerazione l'idea di essere spinto da questo cornicione".
Allora lui, serio, rigirò le gambe verso l'interno e fece per andarsene.
"Uffa Holden, che palle, stavo scherzando! Sei peggio di me, uffa. Anzi, lo sai chi sembri? Sembri un ingegner punkabbestia!".
Si fermò di spalle. Volse la testa e chiese: "Che significa?"
Dissi ridendo: "Giovane qui, giovane lì, ma la vuoi sapere la verità? Sei un anticonformista più conformista di tutti i conformisti di questa città conformista"
"E tu sei una deficiente che si sta ripetendo" esclamò scettico con le sopracciglia alzate.
"Vedi? Questo botta e risposta non va bene! Ti rende ridicolo! Devi dire invece: siiiii, va bene, hai ragione. Stai capendo?"
"Ingegner punkabbestia?" chiese di nuovo interrompendomi.
"Esattamente. Uno crede di essere diverso perché ha i capelli cotonati e un cane, ma, bello, ti sei accorto che hai la postura curva di tuo padre professore? E che parli con uno strano formale in bocca mentre vai alla facoltà di ingegneria? In questo momento sto pensando ad un mio amico. Beh prima eravamo amici, almeno".
"C'è qualcosa di sbagliato in quello che dici, oppure di troppo viziato" fece notare.
Sospirai. "Lui se n'è andato, non tornerà. He's gone. Don't you understand, darling? I love only you. There's nothing to do now. Absolutely nothing!"
"Yes, but...are you okay?"
"No!" I cried. "Don't speak to me like that! I'm not one of your silly girls. I'm desperate and I can't help falling in love with you."
"Please, don't play this melodramatic role. I can't stand these stupid tragedies" he said with a cigarette in his dancing hand.
"Go away! Leave me alone! You, bloodless man".
Poi ridemmo a crepapelle per quella sceneggiata. Mi lanciò il suo fazzoletto di stoffa. "Che schifo!" dissi.
"Ma se sono i tuoi mucci!"
"Insieme ai tuoi, bleah!"
"Che principessa sei" disse prendendomi in giro.
"Un capo d'eleganza" commentai di profilo.
"Un capo di bestiame!" esclamò senza aspettare nemmeno un secondo.

18/07/12

Lettera dagli indiani pellerossa ai vecchi bambini del Sud

di Cristina Taliento


a Silvia, quando eravamo piccole. 

"A sister is a little bit of childhood that can never be lost"          (M.G. Garretty)


(Pan, Maria McGinley, 2007)

Carissimi bambini della dodicesima tribù italiana,

scrivono qui gli indiani pellerossa di Seattle. Sappiamo che siete cresciuti. Contando le lune piene e i solstizi d'inverno, molti di voi avranno diciannove, persino ventisette anni. L'ultima lettera che abbiamo ricevuto proviene da Greenwich, Londra, pertanto abbiamo creduto che vi foste separati. Come forse già avete saputo il Capo Iro è morto e le aquile sono scese dal cielo per prenderlo con corde di rami d'abete intrecciati. Abbiamo pianto sui nostri lupi sotto la pioggia per sei giorni e sette notti. (...) Abbiamo vissuto fino ad ora con l'insegnamento di non vergognarci del nostro dolore e vorremmo che anche voi, una volta appresa la notizia, possiate non sentirvi spaventati o confusi per la morte di colui che fu le estati della vostra infanzia e vostro fedele amico. Il figlio di Iro, il giovane Uz, diretto compagno dei vostri giochi, ha preso il suo posto prima della stagione delle aurore e per sua iniziativa ora, qui riuniti contro il tramonto a mangiare noccioline, vi scriviamo nel ricordo dei nostri giorni insieme affinchè possiate raccontarci di quanto sia cambiato il colore dei vostri capelli oppure se siete ancora tutti biondi come in quell'ultima fotografia. Non è escluso, carissimi bambini, che molte cose, anche quelle più restie al nuovo, siano cambiate e che molti alberi del giardino siano stati abbattuti per sempre, insieme alle piccole casette costruite sui rami. Così come conosciamo la forza della corrente del tempo e le costellazioni, possiamo credere con ragione che alcuni di voi avranno smesso di fare prigionieri gli adulti in nome del titolo di Grande Capo, mentre quasi tutti avrete senza dubbio perso  l'abitudine di premere le vecchie manine sui vetri appena lavati e di essere rimproverati per questo. E la maggior parte di quei rimproveri che prima vi ricoprivano il piccolo volto di lacrime e vi portavano a cercare il di sotto di un letto o il braccio del nonno, ora possono non sembrarvi più nulla e lì dove c'erano disperati cuori feriti ora possono esserci silenzi orgogliosi e piccoli muri che lasciano il passo a più grandi muraglie. A volte è la natura, spirito dei pellerossa, a suggerirci come stanno i nostri amici, voi, cari bambini, e i nostri antenati ci dicono che state tutti bene e che mangiate e ogni giorno crescete. Sappiamo, inoltre, che molti di voi arrivano agli scaffali più alti e tra breve si allontaneranno dal mar Adriatico per nuove nazioni e nuove terre. Come potrete constatare da soli, ciascuno nel posto in cui si trova, mentre il tempo e l'adolescenza tempravano la vostra anima, anche noi pellerossa fronteggiavamo le nostre battaglie, ora la nuvola nera dei fumi, ora la violenza dell'uomo. Sebbene nuovi nati abbiano allargato il numero della tribù, ci appare sempre più chiaro e nitido il destino che grava sull'avvenire prossimo di noi indiani. Cattivi presagi arrivano dalle montagne e noi sentiamo che il tempo migliore della nostre vite sia già stato vissuto. Per questa ragione, in fondo, vogliamo mandarvi nostre notizie, non per chiedervi aiuto, ma per sentirvi uniti e ancora, vivamente, bambini. Vi abbiamo insegnato a non temere il buio o il fantasma, ad essere coraggiosi e sempre calmi e vi abbiamo medicato le ginocchia sbucciate. Se adesso le vostre ginocchia non sanguinano più, però, siamo certi che le vostre paure saranno altre e che, pur non temendo il buio, alle volte non dormirete e non avrete nessun fratello o sorella a fianco da svegliare nel cuore della notte. Ricordatevi allora, in quei momenti, carissimi bambini, di quando Leonardo fu inseguito da quel faggiano e tutti noi ridemmo e c'era anche il nostro Capo Iro e vostro nonno; di quando giocavamo quelle strane partite di pallone e mai nessuno che volesse andare in porta; di quando abbiamo catturato l'upupa e quanto è stato bello quando l'abbiamo liberata nel cielo.
 Ricordatevi sempre che dietro la finestra che dava sul giardino c'erano gli indiani. Ricordate l'inizio della battaglia, i loro tamburi battere...


Coraggiosi addii,

ultimi indiani pellerossa, Seattle,
Stato di Washington,
Stati Uniti d'America.

01/07/12

La metamorfosi idiota (XXV)

di Cristina Taliento

(Illustration by Hannah Müller)


Livia aspettava il suo carattere. Aspetta e aspetta finchè il silenzio non si mangia le parole e riempie di ragnatele le ginocchia. Chi era lei se non una ragazzina, un personaggio secondario, una specie di Eva nata per fare compagnia all'adolescente? Sarebbe potuta morire per quel che mi riguardava. I personaggi morivano sempre, chi in guerra, chi in una casa di riposo, chi suicida. Altrimenti partivano e, in quel caso, si trattava delle praterie russe oppure il Canada. Oh... il Canada. Ma Livia doveva restare ed io decisi di mandarla in esilio sull'isola di Malva per vedere se poteva resistere senza l'aiuto viziato e la copertina di lana offertele da un narratore.
Se ne stava lì, seduta su quell'isola come su una panchina. Seduta muta con le braccia intorno alle caviglie. Talvolta si avvicinavano dei pescatori mandati da me affinchè non morisse di fame, ma lei immobile come un osso di seppia guardava il mare e i gabbiani e i giochi del sole sulle creste delle onde. "Devi mangiare, signorina" le dicevano. Nessuna risposta. E poi si alzava e si metteva a correre con la mascella stretta e più sentiva il cuore scoppiare più accelerava il passo. Saliva sugli alberi e voleva gridare, ma il pensiero istintivo di non avere voce la bloccava e da quel ramo poi ridiscendeva graffiandosi le mani con le spine. Quasi rideva di un riso isterico perchè trovava strano di esistere senza avere un carattere, respirare e non essere nessuno. Il suo persiero andava all'esistenza, a chi esisteva, a chi poteva farlo. "Vatti a coricare" era quello che pensava di se stessa. Ella era la tomba del suo ardente spirito. La sua spada, la sua grezza fierezza e l'urlo che sentivo crescerle dentro morivano nell'inconsistenza di ciò che ben sapeva di essere e non era.  La vedevo correre con il passo di un ghepardo digiuno e la fame sragionata di quella vita che non spettava ai personaggi come lei. Vedevo come spietata sbranava le sue lacrime. Vedevo i suoi occhi rabbiosi alzarsi dalla polvere e accusare l'orizzonte, accusare me, io che per gioco l'avevo creata.