27/06/12

La metamorfosi idiota (XXIV)

di Cristina Taliento

(Napoleone al passo del Gran San Bernardo, Jacques- Louis David, 1800, Musée National du Chateau de Malmaison)


Nel buio l'adolescente piangeva per la morte di Boromir. Le sue lacrime illuminate dai bagliori dello schermo. "Assassino, assassino" ripeteva all'orco che prendeva la mira con il collo dritto e un ghigno sulla faccia mostruosa. Alle sue spalle, nella camera oscurata, avanzava il fantasma con una telecamera tra le mani. Inquadrò l'adolescente e chiese con voce divertita: "Chi è Boromir?". E l'adolescente rispose in preda al pianto: "L-l-lui e-e-era il s-signore di G-Gondor". Il fantasma mentre lo filmava continuò ridacchiando: "E chi è Gondor?". Rispose tra i singhiozzi: "Nella T-Terra di M-Mezzo". Allora il fantasma annunciò con tono solenne chiudendo la registrazione: "Signori e signore oggi avete assistito alla morte di Boromir, signore di Gondor, nella Terra di Mezzo". L'adolescente soffocò le lacrime nel cuscino e si girò dall'altra parte.
"Eddai!- esclamò il fantasma vedendolo ancora così triste- tanto mica è morto davvero! Lo sai vero?" chiese poi preoccupato. L'adolescente non rispose e tirò su con il naso.
"E allora dovremmo piangere anche per Romeo? Per Giulietta? Al contrario noi non piangiamo e andiamo a quella festa del pragmatismo con i tuoi amici".
"Invece io non ci vado" disse l'adolescente severo marcando la parola "invece".
"Noto con piacere che ti sei ripreso, ragazzo!" esclamò il fantasma battendo i palmi e alzandosi.

L'adolescente pettinato si faceva largo con la spalla tra la folla di ragazzi mentre il fantasma fluttuava sopra la sua testa con una bottiglia di birra in mano e da lassù ogni tanto gridava: "Coraggio, tu sei un animale socievole". E lui rispondeva: "Tu l'hai detto e tu lo sei!". Così il fantasma restava stupito per quelle risposte sconnesse, infantili, per di più stupide e senza replicare alzava il sopracciglio destro. Ma l'adolescente era in quel momento in un altro luogo mai inventato prima d'allora. Era la sua infanzia che diveniva una pianta allungabile fatta di plastilina, il ricordo di suo nonno sotto il gelso selvatico che lo guardava da lontano e sorrideva,  il primo ritorno di un viaggio dove lui era rimasto steso sul sedile posteriore a pensare a quanto fosse bello il cielo e l'amore, il secondo ritorno in viaggio quando seduto nel caldo petrolifero di un treno d'agosto si ripeteva umiliato e sudato "non ci casco più! Giuro su Dio che quella mi ha perso per sempre, per sempre". 

23/06/12

Il battesimo di Personaggio

Appunti per un patto di sangue

di Cristina Taliento

(Orfeo trovatore stanco, Giorgio De Chirico, 1970)

Il Personaggio. Senza nome, disteso nella sua sbiadita inconsistenza. Mi guarda con la testa girata di lato e m'implora. Non lasciarmi nel buio, dice. Ma io, Adolescente, personaggio, non sono capace di darti una forma, delle braccia, qualche polmone. Mi sembri uno di quei giocattoli di plastica debole con degli adesivi neri attaccati al posto degli occhi. Sei seduto su uno scaffale e aspetti paziente un cuore. Un cuore! Dove, dimmi dove, lo trovo io un cuore. Dove, dimmi quale via. Vorrei che ti alzassi sicuro e che camminassi sopra le pagine con passo leggero e che avessi il rispetto di tutti gli altri personaggi della letteratura. Tu, invece, per colpa mia, siedi con la testa bassa e temi di alzarti perché le gambe che ti ho dato non sono vere gambe, ma piuttosto aliene e corte per la tua età. Ma come si descrivono poi un paio di gambe per bene? Io non lo so! Vattene, lo capirò. Vai nelle soffitte degli scrittori impegnati, di quelli che scrivono milioni di parole al giorno e non fanno altro che scrivere perché è il loro mestiere. Vattene, non piangere, dico davvero. Vai da chi ha la tecnica, da chi ha la laurea e da chi conosce bene Dante. Allontanati per questa strada fatta di nuvole ed immaginazione. Sempre dritto, laggiù, abita un vecchio scrittore, uno che sa. Io voglio solo il tuo bene, personaggio. Ti prego, non chiedermi di farti restare con me, non farlo! Arriverà un giorno in cui mi chiederai il perché delle tue paure, il perché di tutti quei binari morti che sono le cose che fai. Si, te ne accorgerai che le tue azioni non portano a nessun finale. Ti getterai per terra gridando, voglio il lieto fine, il lieto fine. Non c'è nessuna storia, lo scoprirai. E che vuoi che ti dica allora? Sarò vecchia e stanca e non vorrò ascoltarti. Saremo vecchi tutti e due e morirai senza mai aver avuto un cuore. Adesso dici che va bene così, ma non è vero. E poi ti innamorerai, personaggio. Ti guarderai allo specchio e incolperai me di non essere stata in grado di costruirti un viso come quello di Dorian Gray! Ambirai alla stoffa che distingue i personaggi dei classici e non lo accetterai, non lo accetterai ti dico, di essere tanto impreciso nel carattere, tanto approssimativo nei discorsi. La tua personalità è un oggetto informe che galleggia in uno stagno e ora lo vedi ora non lo vedi. Lo capisci che sto cercando di difenderti? Smettila di abbracciarmi, non voglio il tuo abbraccio. Devi andartene, vai! Ti ho detto che ci sono degli scrittori in giro, gente per bene. Loro scrivono per la televisione, per il teatro, per il cinema. Non storcere il naso. Vedi? Non sono stata nemmeno capace di insegnarti l'umiltà. Sei cresciuto arrogante proprio come volevo che non accadesse. Questa metamorfosi ti ha portato via da me, tu, tu che eri già una barchetta senza remi. Io non il controllo su di te. Non piangere, per Giove, smettila! Sei debole, debole come il ragazzo della mia ispirazione. Le tue vene sono fatte di cristallo e tu non sai di essere malato. Pensi: oh ma io sono sano come pesce. Eh no! Ti sbagli! Guardati come sei fragile. Piangi come un ragazzino solo perché sto cercando di metterti al corrente della tua rarefatta corporeità.  Hai un tumore, ecco la verità. Un tumore che si chiama incapacità. Non tua, bensì mia. Non mi dire di andare a quelle scuole di scrittura! Non me le nominare nemmeno, non ti permettere! Stai sbagliando il punto. Rimbaud scriveva a sedici anni e Nietzche quattordici, quindi non venire a dirmi di imparare la creatività perché, bello mio, non si imparano certe cose, non si imparano da nessuna parte. O ce l'hai o non ce l'hai. E basta, stai zitto.
E... , quindi, resti? Va bene, lo capisco. Però mi devi promettere che non mi rinfaccerai niente e che... poi non potrai più andartene. Perché per allora avrò fatto molto lavoro su di te e a nessuno va a genio che il proprio lavoro se ne vada a spasso nelle carte di altri scrittori anche se cammina su due moncherini. Bene.

21/06/12

La metamorfosi idiota (XXIII)

di Cristina Taliento

( dalla mostra "Non io", 2011, Filippo Robboni)

Entrai nelle vite dei miei personaggi un certo giovedì  fermo da anni e anni sulle due e un quarto. Erano tutti e tre sulla spiaggia dell'Adriatico e il fumo della sigaretta volava a ovest e allora Livia si lamentava e chiedeva all'adolescente di spegnere quella dannata droga e il fantasma voleva silenzio per spiegare d'un fiato la grandezza dell'Impero Romano e, soprattutto, di Ottaviano Augusto. Balle, diceva Livia, era solo un tiranno come tutti gli altri. Ti sbagli, ragazzina, replicava il fantasma. Quando mi videro arrivare da lontano Livia mi indicò facendosi ombra sugli occhi e l'adolescente si girò a guardarmi senza capire. Il fantasma si inchinò alla mia vista. E l'adolescente che ancora non mi conosceva ritornò a studiare il mare con indifferenza. Allora io avevo in mano un copricapo degli indiani pellerossa, me lo misi e scappai sulla duna più alta della spiaggia che s'innalzava alle nostre spalle. Così gli gridai da lassù: "Mi dispiaceee che tuuu non capiscaaa quanto iooo siaaa importanteeee!". Passava in quel momento un principe biondo con gli occhi truccati di nero ed io mi tolsi subito quel cappello strano e l'adolescente, notando la mia faccia rossa, si mise a ridere forte. A quel punto Livia salì di corsa sulla duna e mi chiese tutto bene, come va. "Oh niente male" ripetei due volte guardando l'adolescente che ancora rideva.
"Fa sempre così quel deficiente" borbottò con le mani sui fianchi riprendendo fiato.
"Ti piace?" le chiesi rimettendomi il copricapo degli indiani pellerossa.
"Dimmelo tu. Noi personaggi non disponiamo di sentimenti. Loro sono attaccati al cappio della tua bella stilografica".
"Beh... E' più che altro un mozzicone di matita". E aggiunsi: "Me l'ha data un falegname, sai. E comunque non credere che io ne sappia più di te. Voi siete figli delle parole e noi siamo i figli di nessuno".
Il suo sguardo spaventato venne distratto dall'intromissione del fantasma che si era avvicinato con le mani in tasca ed un'aria soddisfatta.
"Approfitto per ringraziarvi di questa nuova divisa con le tasche. Non l'avevo così nemmeno sul Carso".
"Mi dovrete ripagare con un doppio volteggio e tripla capriola!" scherzai.
"Con tutto il rispetto,  ho pagato abbastanza con il ruolo che mi avete affidato. Ripeto: non è facile stare con quello lì notte e giorno. Mai visto un ragazzo simile. Alto due metri, ma si comporta come un undicenne".
Alzai le spalle e strinsi le labbra. "I personaggi migliori se li sono presi gli altri".
"Infantile e pallone gonfiato. Per di più un orgoglioso ignorante!" continuò il fantasma.
"Suvvia, non fateci caso- lo incoraggiai- è preda di una metamorfosi idiota".
Intanto l'adolescente aveva acceso un' altra sigaretta.
"Poi, ha iniziato a fumare..." commentò il fantasma.
"Vedrai, vedrai: è solo un vezzo. Smette, smette" dissi calma.
"Talvolta erba" aggiunse Livia.
"Non è definitivo" spiegai.
Per un momento cadde il silenzio e tutti e tre rimanemmo a guardare dalla duna l'adolescente che si toglieva la maglietta e si tuffava nel mare.
"Ma almeno sa nuotare?" chiese preoccupata Livia.
"Veramente no!" dissi e me ne andai sotto i loro sguardi dilatati.

17/06/12

Ho sognato le trincee (1993)


Ho sognato le trincee.
Schiere di fantasmi in uniforme.
Bandiere strappate sul fuoco.
Ho creduto in ogni genere di morte.
All'inizio era orgoglio.
Ho mangiato le mie parole.
Uno sparo.
"Siamo spiacenti, il numero da lei
selezionato è inesistente.
La preghiamo di riprovare.
Grazie."

(C.T.)

16/06/12

La metamorfosi idiota (XXII)

di Cristina Taliento



(Album cover Bombay Bicycle Club)

Cercava ora il dentifricio. Lo cercava dappertutto. Poi lo trovò tra le pagine del mensile di Geomagazine, la geografia per i più piccoli. "Frutto di quella strana abitudine di cercare di spiegarti mentre ti lavi i denti" disse il fantasma che lo seguiva. Ma l'adolescente non lo ascoltava preso a un tratto da un'immotivata fretta. Aprì la porta del bagno spingendola con la spalla. Il fantasma del medico morto durante la Prima guerra mondiale si sedette sul bordo della vasca e prese a fissarlo. "Credo tutto sommato che quel modo di sfregare le setole sul dente abbia qualcosa di incontrovertibilmente inesatto" disse sapendo di essere ignorato. Era un fantasma di cinquant'anni, due proiettili nel braccio, uno dritto al cuore, una croce rosso sangue legata come una benda, gli stivali neri, l'accenno di una cifosi, una fede al dito. Si era sposato per scherzo in dieci giorni. Conosciuta il primo giorno e sposata il decimo. Il suo nome era... no, non lo ricordava. E poi la chiamavano tutti Maria. Questo santo nome sulla bocca di ogni sfiduciato, abbandonato, disoccupato che avesse bisogno e lei sempre pronta, sempre a correre di qua e di là. Quando lui era morto, però, non era rimasta mai sola; anche quando si tagliava le mani con i cocci della nuova, nuovissima, collezione di piatti fondi e piatti piani c'era sempre o sua madre o qualche suo silenzioso alunno della scuola elementare. L'adolescente si accorse del suo silenzio, sputò il dentifricio e disse: "Tanto mi cadranno comunque 'sti denti". Bagnò lo spazzolino e mise altro dentifricio senza mai guardarsi allo specchio. Il fantasma mormorò sorridendo: "Ti lavi le zanne che fra poco ti morderanno". L'adolescente non rispose e mantenne lo sguardo fisso sul braccialetto di fili di lana neri e bianchi che gli aveva regalato Livia. "E poi a che serve un secondo lavaggio? Tutte chiacchiere, ecco la verità". Mentre si alzava e gli si avvicinava recitò ad altissima voce: " Vanitas vanitatum et omnia vanitas". L'adolescente si risciacquò la bocca per l'ultima volta, lasciò lo spazzolino e sbatté la porta non curante del fantasma che, con la grazia di un danzatore, vi passò attraverso, sbiadito nella sua evanescente inconsistenza. Seguì l'adolescente con lo sguardo, lo vide stendersi sul letto, guardare il soffitto, annoiarsi, sbuffare, prendere Geomagazine, leggere e borbottare: "Australopithecus afarensis". Allora anche il fantasma si rigirò tra le mani un libro e poi lo buttò sull'adolescente che incassò indifferente il colpo girandosi sul fianco. Era la lunga estate del 1993, non un anno prima, non uno dopo. "E' quella la tua costosa educazione?" chiese il fantasma indicando la rivista. "Yep" fece l'adolescente per dire si, ma poi aggiunse: "Mille lire, duemila con l'inserto. L'università mi fa una pippa. E poi mica ci vado". "Come sssei prosssaico e materialissssta" si lamentò il fantasma facendo l'imitazione della sua professoressa di filosofia. L'adolescente rise per un po' così il fantasma continuò: "Allora Maniero da te voglio ssssapere SSSSpinoza!". Dopo quel momento l'adolescente si mise a sedere con i piedi incrociati e chiese al fantasma: "Va bene, adesso ti dico perché sono triste. Anzi, secondo te, perché Livia mi ha lasciato?". E il fantasma che aveva tenuto ben centoventidue cuori in mano prima di aver sentito sciogliere il suo, intrecciò le mani sulla pancia e disse.

14/06/12

La metamorfosi idiota (XXI)

di Cristina Taliento

(Reptiles, Cornelius Escher, 1943, litograph)


Un libro volava a mezz'aria tra il lampadario e il tavolino rotondo. La bottiglia e il bicchiere di vetro riempiti di un liquido verde bottiglia. "Ma no, Franco! Non è tanto il colore del liquido quello, quanto il colore della bottiglia! Non trovi che sia, voglio dire, evidente?". In realtà, si, poteva darsi. Cercava di ricordare Freud con la mente invischiata nelle nebbie dell'alcol. Stese le gambe e rimase a fissare la gomma bianca delle sneakers che appariva ora un po' sporca d'erba. "Solo ora? Ma va, quelle scarpaccie sono perennemente sporche. Finge di meravigliarsi, il ragazzino...". Eppure non importava. Un pettirosso dietro la finestra sfiorò il vetro con un' ala e parve che ad un tratto gli alberi sullo sfondo si fossero mossi o scossi. A suo impegnato giudizio si sarebbe potuto trattare di un occhiolino. Si, l'occhiolino dei pini quando vedono un adolescente seduto su una poltrona di velluto chiamata Helsinki. "Che razza di nome, se mi è permesso! No, ma il discorso è un altro, però: dare il nome ad una poltrona. Ti sembra normale?". No, non lo sapeva, tuttavia. Sorrise agli alberi prima di essere visto. Cercò di alzarsi, ma il braccio gli cadde sulla spalla e il piede inciampò nel ginocchio. Dubbioso, controllò che le parti del corpo non avessero disertato, mancando per codardia a quella guerra. "Codardia, che parolona, dimmi dove lo metti l'accento...". Se la sua gamba destra avesse deciso di disgregarsi e andarsene gli sarebbe toccato camminare a testa in giù sulle mani e non avrebbe mai più potuto strisciare i lacci per terra con la lattina di birra tra le dita. "Che bugiardo! Tu non bevi birra! Ti fa schifo, come puoi, dico, come puoi mentire in questo modo?". Con una lattina di limonata tra le dita. The freddo. Aranciata. Durante la sua recente infanzia aveva visto una bambina camminare a testa in giù. "Recente infanzia? Rido. Mi sembri un vecchio su quella poltrona". I vecchi... li avrebbe osservati per anni. Erano per lui il segreto della vita, dopo il DNA. "Ma che ne capisci tu di queste cose, mah!". I vecchi... creature boschive, scoiattoli della cucina, pezzi di legno non lavorato, ecco si: martelli. I vecchi... lattuga su cui sale una lumaca. Martelli e lattuga e lumaca. Si chiese che titolo avesse quel libro che volava. "E' quella borghesuccia di Jane Austen". Livia leggeva Jane Austen. Non era una borghesuccia. Poi ricadde su Helsinki e si addormentò. "Ancora con questa storia. Ma non ti accorgi, santo Iddio, che è solo, soltanto, una banalissima poltrona?".

12/06/12

La metamorfosi idiota (XX)

di Cristina Taliento


(Un paio di scarpe, Vincent Van Gogh, 1886, olio su tela, Van Gogh Museum, Amsterdam)

Brillavano le strade disseminate di polveri e fieno. L'aria era fatta di sole, le parole si agganciavano ai campanelli delle case. Non erano, difatti, semplici citofoni. Si trattava più che altro di aggeggi in ferro battuto e campane ricurve dove il suono risuonava tutto. Ecco quello che realmente erano. E le parole stavano lì, in fin dei conti, attaccate, appese per le gambe di tutte le A e le E che si dicessero in giro. Qualcosa di molto numeroso. L'adolescente ripeteva il suo nome per gioco e si arrabbiava dentro silenzi di penombra dove le ombre cambiavano i connotati agli oggetti. Nascevano così i mostri. Mostri: ali di pipistrello seghettate e aculei spessi come spade su criniere e ringhiere di scale al posto dei denti, ghigni d'insetti giganteschi, occhi metallici e assassini di un segugio demoniaco. Fingeva di dormire, ma in realtà si sentiva arrabbiato e voleva mordere il cuscino, mangiarne le piume. Pensò che sarebbe diventato un'anatra. Sua madre un giorno della sua infanzia affermò: "Nel tuo cuscino c'è materiale sintetico". Allora l'adolescente bambino aveva preso ad immaginare pneumatici e ruote di bulloni al posto delle piume. Pensò che sarebbe diventato, allora, una di quelle officine nella zona industriale. Fingeva di dormire ed ogni goccia di sudore era un pensiero sinistro, spaventoso. Brillavano le stelle nel cielo senza che lui potesse vederle, ma dentro di se pensava: tramontate stelle, maledette stelle, uffa questo mondo, ma io, ma io che c'entro, uffa. Stavano parlando in quel momento nella sua testa diverse illustri voci di psicologi scoppiati, marinai con una pensione di euro otto al mese, parenti con le gambe distese e l'aria scettica. Sentite belli, abbiate la compiacenza di andare a farvi benedire quel cervellino ino-ino, questa è la mia vita e voi, dico voi, ebeti, non me la fate l'analisi, non riverserete su di me la vostra misera volontà perché io, perché io... non lo so. Si, l'adolescente aveva una vita e non si poteva negare, per molti aspetti, che egli esistesse per davvero, ma sulla ragione di tanta rabbia, imprecisione nel ragionamento e sui sogni che l'affligevano, non si sapeva nulla.
E al fantasma disse: "Vorrei prendere queste quattro parole impacciate che ho in testa e farne un'opera d'arte e non per te, nè per nessun altro, ma per la mia rabbia, affinché trovi un posto nel mio universo. Questa rabbia è forte come una tempesta perché non ha ragione. Non ho visto le guerre, non sono stato offeso, la mia camera è ancora il nido di un bambino, non so cosa sia la vendetta. Eppure stringo i pugni e nascondo la mia ira come fosse un segreto contro il mondo e vorrei vederla in faccia, distesa sul foglio, quest'assassina. Ma guardo me stesso e tremo".

07/06/12

Sull'inesistenza di una mano destra

Ilari presunzioni filosofiche di un corpo all'estremità dell'avambraccio

di Cristina Taliento

Consideriamo come modello delle nostre osservazioni un vecchio, o per meglio dire, un anziano che dopo aver assistito ai vespri serali si reca alla sua residenza con passo incerto e spezzato e per meglio bilanciare le forze che agiscono sul suo corpo presenta una mano, si voglia la destra, socchiusa dietro la schiena. Dimostriamo umilmente che la data mano non esiste, ma per farlo, supponiamo, per assurdo, la sua esistenza.
Ebbene, poniamo nello spazio un soggetto P., un tipo impaziente sulla quarantina, giacca a righe e camicia celeste, facciamo che sia un avvocato in ritardo. Immaginiamo, per ipotesi, che P. si trovi al lato dell'anziano, sul marciapiede parallelo, di modo che le loro spalle siano sulla stessa linea. Chiediamo a P. di girare la testa di 45 gradi e documentare ciò che vede. "Cosa vedete, di grazia, signor P?". Il signor P. ci pensa un attimo e con tono sicuro afferma: "Vedo un vecchio. Cammina sul marciapiede". "Quante mani ha il vecchio?" domandiamo. "Una e...due. Intravedo la seconda".  A questo punto trasliamo, con il suo gentile consenso, l'impaziente signor B facendo sì che la sua fronte sia perpendicolare alla schiena dell'anziano. Interrogato nuovamente, il signor P. guardando l'orologio risponde che da questa posizione distingue chiaramente le due mani. A questo punto spostiamo P. di fronte all'anziano. Senza farlo aspettare troppo chiediamo: "E ora quante mani ha l'anziano". "Due" risponde P. tamburellando il piede. Chiediamo meravigliati: "Come fa a dirlo? Noi vediamo solo una mano". "Oh no-fa P.- l'altra è dietro la schiena!".
L'ingenuità del signor P. è spesso identificata come tale nel momento in cui, inosservato, si avvicina un macellaio che taglia con il suo coltello la mano dell'anziano e applica di repente una benda affinché il sangue non inganni oppure anticipi l'esito della nostra dimostrazione. Il signor P. non si è accorto affatto del nostro macellaio e, ossessionato dal pensiero dell'udienza già iniziata, non bada alla faccia stravolta dell'anziano che respira scioccato e immobile con gli occhi sbarrati. Dal momento che lo scenario è mutato, chiediamo per la quarta e ultima volta: "Quante mani ha l'anziano?". Il signor P risponde spazientito: "Insomma, quante volte ve lo devo dire: due!". Dopo aver congedato il caro signor P. ci avviciniamo sorridenti all'anziano e posiamo la nostra mano sulla sua spalla invitandolo a calmarsi. Poi, sbirciamo dietro la sua schiena e continuando a sorridere confermiamo l'inesistenza della mano destra. Notiamo che l'ultima affermazione del signor P. è fallace, non sussiste. Quindi al lamento incredulo dell'anziano ("La mia mano... Dov'è la mia mano?"), noi rispondiamo compìti: "La sua mano, niente lacrime, non è mai esistita!".
Come volevasi umilmente dimostrare. Con il vostro permesso.

06/06/12

La metamorfosi idiota (XIX)

di Cristina Taliento

(Milk girl, Diego Gravinese, oil on canvas, 27.5 x 40)

La testa coricata sul braccio, masticava chewingum come una cantilena. Bucava il silenzio con lo scoppio di uno, due, palloncini di zucchero.
"Questo ciak ciak della tua saliva schifa mi snerva" disse il fantasma del medico morto durante la Prima guerra mondiale.
"Va bene..." rispose l'adolescente sovrappensiero senza smettere. Era un pomeriggio scivolato dalla tasca di una stagione qualsiasi che lui non riusciva ad individuare. Sentiva il sue essere farsi pioggia, ma continuava a masticare con la bocca aperta e le dita che ogni tanto si muovevano come prese tutt'a un tratto da un dubbio improvviso. Avrebbe voluto fare una grande scenata di rabbia davanti a un pubblico di belve stupite. Raddrizzò il busto mantenendo le spalle piegate. Avrebbe gettato tre sedie, strappato le pagine di quattro libri e mezzo, sbattuto il pugno ripetutamente sulla scrivania e spezzato penne a non finire.
"Dove stai andando?"
"Non lo so- disse masticando con la bocca aperta- a generare il vento, vuoi venire?"
"Sei proprio figlio di questo popolo di commedianti!" esclamò il fantasma. "Non hai il benché minimo talento."
"Benché minimo" ripetè l'adolescente dentro di sé.
"La tua rabbia è fasulla e bugiarda"
"Sono sinonimi"
"Oh no, non è vero" disse il vecchio.
"Potrei uccidervi proprio ora se non foste già morto" esclamò l'adolescente usando il voi.
"Esempio perfetto di periodo ipotetico. I miei auguri per una brillante carriera da scrittore"
"Brillante carriera è un luogo comune, un limitatissimo stereotipo"
"Sottolineare i luoghi comuni è un luogo comune. Voi stesso, signor ragazzo, siete uno stereotipo. Credete forse di essere originale?" rise.
"La mia originalità sta nell'ammettere di non essere per niente diverso" disse l'adolescente fingendo di fumare con la matita a righe gialle e nere che aveva sempre in mano.
"Molti altri hanno affermato questo prima di voi, ma forse non avete letto abbastanza"
"Non è colpa mia se sono nato dopo di loro. Una questione di tempi, chiamiamola così"
"Impara: è sempre colpa vostra. Dovevate nascere prima. Come spermatozoo eravate alquanto gracilino".
"Una visione del mondo questa piuttosto infantile, commiserevole, oserei" continuò l'adolescente con teatrale aria di superiorità.
"Mi dispiace di aver urtato la vostra cultura-rispose il fantasma alzando le spalle- D'altronde in un contenitore così piccolo si sta davvero molto stretti e bisogna non muoversi troppo altrimenti si rischia di trovarsi pieni di...bernoccoli!"
"La mia cultura si fonda sul vero, sulla scienza e non sulla vostra sciocca immaginazione"
"Vi contraddite" fece notare il fantasma.
"Per non contraddirmi dovrei essere un'equazione matematica. Ditemi, ho forse le sembianze di una X al quadrato?" chiese l'adolescente.
"Certamente. Divaricate gambe e braccia e afferrate  un cappello per la visiera".
"Come giustifichereste a quel punto la mia testa o il busto?"
"Con il morbo di Parkinson di un matematico anziano"
"Dunque non c'è da fidarsi. Come vedete, io, dottore, non sono e mai sarò una X al quadrato."

02/06/12

La metamorfosi idiota (XVIII)

di Cristina Taliento


(Detail from "Metamorphose II", Maurits Cornelis Escher, 1898 - 1972, woodcut in three colors, 19 × 389.5 cm)


"Ermo doe sei. Non muoere un muscolo" disse il barbiere con un mozzicone di sigaretta stretto tra i denti.
L'adolescente degluti atterrito. Lo stridio del rasoio elettrico entrò nelle sue orecchie, si confuse con il materiale metallico delle sue paure, gli punzecchiò il collo, trafisse i nervi, fece scoppiare i capillari di fila, urtò contro i denti facendoli vibrare, risalì il setto nasale... Uno, due, tre, quattro e cinque. Uno, due, tre, quattro e cinque. Uno, due, tre...
"Inito. Ualà". Ritornò il silenzio di raggio solare stantio e scaffali di compensato. L'adolescente alzò gli occhi, la testa ancora piegata verso il basso. Doveva essere, quello, uno specchio degli anni '50 con una foto di Marilyn Monroe trattenuta nell'angolo della cornice. La superficie era opaca e dentro si rifletteva l'etichetta adesiva dell'alcol rosa posto davanti. Vide in alto a sinistra il barbiere mentre inforcava il mozzicone tra pollice e indice, soffiava il fumo dal lato della bocca. Quando si accorse di quegli occhi che lo guardavano, mostrò il sorriso logoro di un randagio. Poi, lentamente, l'adolescente volse lo sguardo severo verso il suo riflesso e alzò il mento per giudicarsi meglio. I capelli lunghi della sua fanciullezza giacevano morti sulle mattonelle grigie ed ora una testa rasata come quella di un soldato riempiva il centro dello specchio. Mortificato guardò Marilyn.
"Non ti piaci?" chiese l'uomo in piedi con la scopa in mano.
"Non è tanto quello" fece l'adolescente alzandosi e prendendo il portafogli dalla tasca posteriore dei jeans.
Ma il barbiere iniziò ad ammucchiare i capelli tagliati al centro della stanza e non disse altro che:
"Tanto ricrescono... ma non farli venire giù di nuovo così lunghi, figlio mio. Altrimenti ti scambieranno per una femminuccia del catechismo".
L'adolescente pensò che non sarebbe accaduto perché il primo taglio è il più profondo, perché a pensarci bene se li sarebbe tagliati da solo quei maledetti capelli, perché adesso era adulto.
"Io vado" disse lasciando una banconota da dieci sullo scrittoio vicino alla porta. Stava per prendere una caramella come faceva sempre, poi  intravide il suo nuovo riflesso e se ne andò.
Erano le sette e mezzo della sera e i vecchi stavano uscendo dalla chiesa. Attraversò la strada calpestando solo il bianco delle strisce pedonali. Alle volte pensava all'asfalto grigio come a un mare di lava rovente dove bisognava mettere i piedi sul bianco per non finire carbonizzati.
"Fulvio!" lo chiamò qualcuno da lontano.
Si girò svogliato. "Non sei tu, Fulvio?". Ehm, no, veramente no, non più. Questa mattina, cara signora, mi sono svegliato che non ero più lo stesso, ma a dire il vero era già da parecchie altre mattine. Un'agghiacciante amnesia, un grosso rettile al posto dell'intestino, i sentimenti di un estraneo nel cuore mio, le pareti hanno cominciato a restringersi su di me, non so se mi spiego. Magari è successo qualche volta anche a lei, ma non si preoccupi se non riesce a capire tanto io me ne fotto un cazzo di lei e di tutto questo circo.
"Si, sono io. Mi ha riconosciuto?" disse sorridendo.
"E beh, si bè! Veramente è stata la Gina. Ha detto: non è il figlio di Felice? E io ci ho detto: ma che dici. Fulvio ha i capelli lunghi come quelli di una ragazza". Sbattè le sopracciglia due volte e continuò subito: "Poi ti ho riconosciuto dalla camminata strana e ho pensato: è lui!"
L'adolescente annuì in trance pensando alla camminata strana. Non ci aveva fatto caso.
"E come mai questo taglio di capelli?"
"Così" rispose immediatamente, senza aspettare che finisse la frase.
"Hai fatto bene, bravo! Ma passare da un eccesso all'altro, però! Dovevi lasciarli più lunghi..." disse nel tono comprensivo di chi corregge un errore.
"Si, forse, ma non è stata colpa mia. Il barbiere era distratto. L'ho capito appena sono entrato, ma per educazione mi è parso giusto restare" mentì.
L'anziana si scambiò un sorriso con la sua compagna di braccio come per dire: è un bravo ragazzo, come pensavamo.
"Tanto ricrescono, non ti preoccupare. Però, mi raccomando, mai più tanto lunghi. E nemmeno troppo corti perchè tra qualche anno ti cadranno e rimpiangerai di averli tagliati quando c'erano".
L'adolescente si grattò un sopracciglio in preda al panico. Salutò piegando il capo di lato e se ne andò a passo svelto seguendo la strisciolina del marciapiede.