21/02/12

La metamorfosi idiota (VII)

di Cristina Taliento




I giorni in cui iniziò a vedere il fantasma furono quelli in cui smise di vedere chiunque altro. Molti non capirono il senso della solitudine che si infliggeva, dell'aria sinistra e buia delle tane dove si defilava, ma quelle che altri consideravano come punizioni, fughe, dolori, esili e morti, per lei erano soltanto piccole entità di perfetta gioia. Viveva ora come da sempre voleva aver vissuto. Era diventata il passato e la proiezione di ogni possibile futuro: possedeva la dimensione del tempo, percepiva con chiarezza gli attimi della sua esistenza, sublimava le sue emozioni fino a diventare farfalla, aquila, tempesta. Non erano metamorfosi facili, ma si evolvevano lente come virus silenti, esplodevano nella quiete come polvere da sparo e lasciavano, nel vento, le resistenti fragilità dei silenzi.

Il fantasma era un medico morto durante la Prima Guerra Mondiale. Scendeva muto al suo fianco sotto la consistenza della pioggia e sempre taciturno la guardava come per trovare in quell'essere trasformato e stravolto l'inizio della sua stessa storia e l'inizio universale di tutte le storie mai esistite. Lei non lo guardò nemmeno un attimo in tanti giorni che lo sentì a fianco. Rimaneva seduta sulle pietre che limitavano le pianure ricoperte di giunchi e rose selvatiche. il fantasma cercava di essere visto: chinava la testa davanti alla sua indifferenza, ma una volta disse: "Perché ti comporti come se non fossi qui? Io ci sono, ti parlo". Lei rispose sette giorni dopo seduta sulla stessa roccia. Disse: "Non ho voglia che tu mi veda diversa da te. Anch'io mi sento un fantasma, ma non lo sono. Non parlarmi come per cercare un dialogo con chi vive. Io non vivo quel genere di vita che spetta ai vivi". Il fantasma si alzò dalla roccia e andò a camminare lì dove iniziavano le distese selvagge, respirò il vento che già lo trapassava.

"Non ti buttare così". Lo mormorò da lontano, tuttavia il suono arrivò vicino all'orecchio di lei.

"E tu come ti sei buttato, ah? Come ti sei buttato?-rispose con la voce giovane e impacciata- Sei morto in guerra per volere di chi? Sciocco, di chi?". Il fantasma si fermò in quel punto scoperto dagli alberi.

"Per volere degli uomini! Mentre tu stai sbiadendo per volere di te stessa!"

"I miei contorni si affievoliscono, alle volte quasi non sento più alcune parti del corpo: ora un piede, ora una mano. Mi cancello sotto la pioggia, dimentico di avere una memoria, sento distinto il suono della mia marcia funebre, ma io sono lontana- lo gridò nel cielo- Io sono lontana!"

Il fantasma si avvicinò e tese il braccio a cui era legata la benda con la croce rossa. "Prova a stringermi la mano, senti com'è".

"No" esclamò voltandosi. "Hai paura di sentire com'è non esserci? Hai paura di non sentire quello che pensavi di trovare? Una mano dalla stretta forte, signori! Una mano fredda oppure calda... mai più! Non c'è nulla eccetto il vento, questo vento che mi raggela gli organi senza che io senta il dolore, questo vento che non mi accarrezza il viso o i capelli o niente. Si, perchè un fantasma lo vedi che gira, che vaga, ma dove vuoi che vada? Non poter lasciare il segno nemmeno nella sabbia o specchiarmi nei tuoi occhi o negli occhi di un gatto, io non ci sono e muoio assettato dalla voglia di poter avvicinarmi alle storie, alle persone che per una vita ho curato, ma ciò che mi ammazza è non poter essere ricambiato nelle emozioni che provo! Sono solo, lo capisci?"

"Siamo tutti soli qui-gli rispose con la voce rabbiosa che nascondeva il pianto- credi di avere la benedizione della morte, credi di essere il portatore delle sue lezioni morali, ma ti sbagli. Noi siamo già morti prima che il nostro cuore smetta di battere, già prima che madama Morte si scomodi a farci visita. Non c'è cosa che guardi senza immaginarla invecchiata, sgretolata, avvilita dal tempo e fredda, rigida come un cadavere! Noi che cosa siamo? E io, ufficiale dottore, nonchè fantasma e quello che vuole, non posso sopportare di pensare ad attraversare la strada, a legarmi le scarpe, a vedere i miei fratelli crescere e non sapere niente di questo mondo e di me stessa. Parli di vita ai suoi pazienti, vada a rimpiangere le emozioni in posti dove esse contano davvero. Qui, qui, non c'è voce".

La metamorfosi era, infine, avvenuta.

10/02/12

La metamorfosi idiota (VI)

di Cristina Taliento


(Villa di Livia, affreschi del triclinio, Palazzo Massimo alle Terme, Roma)


Ricordai gli innumerevoli digiuni di cuore e ventre, le mattine sui banchi di scuola trascorse ad affermare, citare, annuire e notti, notti spirituali, a vegliare il fuoco con la dilaniata speranza di un padre che aspetta il figlio dalla guerra. Rammentai il giorno della mia nascita, quando l'ostetrica tagliò il cordone ombelicale e il sorriso esausto di mia madre che, per la prima volta, commossa, mi prese in braccio. Sentii le voce del Cercatore-"Libera Silvia!"- e la mia delusione nell'invocare l'aiuto di un altro, di quell'altro: adesso libera tutti, liberami, pensavo. E un attimo dopo "libera tutti!" quell'altro l'aveva gridato davvero e poi si era curvato con le mani sulle ginocchia per prendere fiato. Così ero salva. Molti di noi lo erano, in fondo. Ma, il Cercatore, per esempio no. Lui non faceva parte di quell'accordo nascosto, una specie di patto, un sodalizio di Afrodite che impediva ad alcuni bambini di essere catturati tutti insieme siccome uno di loro riusciva a liberare sempre tutti gli altri del gruppo. Alcuni bambini che ne erano fuori ci guardavano da lontano con lo sguardo triste, ma mai si permettevano di interrompere i nostri comuni silenzi, i nostri complotti di sguardi di cui pure noi stessi non avevamo il controllo, nè la consapevolezza. Era come trovarsi uniti all'improvviso dall'apparenza e impotenti di fronte all'energia di un'intesa che non regalava, non voleva niente in cambio, non chiedeva di più di quanto già vedesse. Gli altri bambini diventarono alti, certi raggiunsero i due metri, iniziarono ad andare alle feste; si fidanzarono tra di loro, alcuni partirono e non tornarono. Anche noi crescemmo. Le nostre braccia si allungarono e così le gambe, la schiena. Le mani si diramarono affusolate come gli ultimi prolungamenti di un rampicante; i nostri capelli spettinati e bagnati tremavano nel vento. Un giorno uno di noi, lui, si alzò in piedi mentre stavamo biascicando distratti alcune riflessioni sulla morte, sulle teorie economiche, il nuovo presidente. Disse che dovevamo parlare dell'adolescenza perché ci riguardava e ci stava consumando. Disse che la nostra adolescenza non era come quella di quelli altri bambini come il Cercatore. Noi stavamo soffrendo di più, noi covavamo la rabbia senza essere rivoltosi, noi pazienti e taciturni ci educavamo da soli, leggevamo piangendo le nostre poesie ad altissima voce sui terrazzi commossi dalle nostre stesse parole, tornavamo stanchi la sera perché durante il giorno il nostro cuore si era quasi spento e poi aveva sussultato per correre ancora, fermarsi di botto e continuare. "Silvia!-mi gridò una volta dalla spiaggia mentre avevo raggiunto gli scogli. Mi girai a guardarlo con gli occhi stretti dalla miopia - Silvia, ricordi ancor quel tempo della tua vita mortale quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi e tu lieta e pensosa il limitar di gioventù salivi?".

01/02/12

In nome di Joyce, addirittura

di Cristina Taliento


(Henri de Toulouse-Lautrec)



Quella volta sono stata coinvolta in una rissa. "La letteratura crea la storia o è la storia che crea la letteratura?". La domanda è stata pressappoco questa."La letteratura non crea un bel niente" ho risposto senza rendermi conto. "Hai detto, scusa?" ha chiesto mentre induriva la mascella."Niente- mi sono fermata e poi...- Non crea un bel niente, ho detto". "La risposta, al contrario, era: la letteratura anticipa" ha spiegato con odio."No, non è vero";"Si, riconoscilo! Bugiarda.";"Tu l'hai detto e tu lo sei!". Una battuta molto infantile eccetera. "Prendetela!". Mi hanno inseguita con i lori coltelli, ma, una volta presa, hanno preferito gettarmi nel fiume."Affogo!Affogo!";"Ammetti che la letteratura forgia la storia";"Affogo! Affogo!";"Riconoscilo!";"Questo, in nome di Joyce, non accadrà!" ho detto tra la corrente. E quindi per la quarantacinquesima volta, teatralmente, inutilmente, sono morta.