29/01/12

Il giovinastro epico

di Cristina Taliento


(Davide e Golia, Caravaggio, 1600, oil on canvas, 110 x 91, Museo del Prado, Madrid)


Ascoltava attento e divertito con lo sguardo profondo della terra brulla. "La tempesta ha benedetto i miei marittimi risvegli. /Più leggero di un sughero ho danzato tra i flutti/ che si dicono eterni involucri delle vittime, /per dieci notti, senza rimpiangere l'occhio insulso dei fari...". All'improvviso si alzò. La sedia di ferro cadde sul pavimento della classe. Milioni di spalle curve sussultarono e si girarono verso di lui; lui, che dall'ultimo banco, dominava il mondo. "Professoressa-esclamò guardando fuori dalla finestra- la leggo io, vuole? E, scavalcato il banco con un salto felino, si diresse verso la cattedra e prese il libro dalle mani della donna. Nella sua voce sbarbata di giovinastro epico si udivano i ritmi di tutte le mandrie selvagge del mondo: c'erano le marce forzate di uomini armati che valicavano le Alpi, diecimila o più ragazzini che battevano i tamburi in un campo di segale, orchi affamati in preda alla furia più nera. Leggeva con una mano che pareva inforcare l'aria e tutto l'universo, si fermava quando gli uditori credevano che avesse accelerato, urlava le parole "Mare!", "azzurrità!", "antichi drammi!", avvicinava il libro ai suoi occhi come se avesse voluto fondersi con esso e diventare carta, poesia, eroe. Quando ognuno di quei ragazzi si fu ripreso da quell'esperienza, quando il vento smise di turbinare tra i fogli e le cartine geografiche dell'aula, egli aveva già sceso le scale e dalla finestra lo videro attraversare la strada con il passo sfacciato di chi ha accettato la morte. Da quella prospettiva da cui gli altri lo osservavano e invidiavano, egli appariva, tuttavia, più alto e più vicino al cielo di tutti loro e fu per questo allora che sentirono un sinistro bruciore nelle loro pance, una sensazione attorcigliata di triste ammirazione e, sconvolti, ritornarono a sedersi.

Non si era mai fermato a riflettere sulla vita, sul tempo che fugge, ma aveva sempre detto di conoscere la risposta: "Ragazzi miei, bastardi, finitela di fare i balletti col vostro santo cervello! Calmatevi, io ho la chiave di tutto. Voi ignorate la filosofia che c'è dietro questo mondo, ma io la vedo nitida davanti ai miei occhi ed è così nitida che potrei dipingerla, ma non li fabbricano quei colori lì o quelle tele così grandi. Non esistono manichini a cui ispirarsi e voi, dopotutto, non capireste. Quindi battiamo le mani tutti insieme e finiamo questo benedetto torneo di scacchi". Se qualcuno gli chiedeva di descrivere quello che diceva di vedere, egli faceva credere di non aver sentito; ad esempio capitava che stropicciasse il giornale con foga ed esclamasse: "Quel matto di Paul McCartney ci gode a sputtanarsi!". Oppure, mentre era assorto in qualche faccenda, recitava incantanto con gli occhi giganti appesi alla bocca morta: "Cantami, cantami, cantami o diva, del Pelide Achille, l'ira funesta, funesta. Oh... funesta!".

Aveva diciassette anni, ma aveva visto e provato da solo le stesse situazioni di una catena di uomini lunga tre millenni. Tuttavia lo scambiavano per un dodicenne perché rideva con la bocca aperta muovendosi tutto e alle volte, invece, aveva i modi di una ragazzina di prima comunione. La curiosità lo spingeva verso sentieri popolati da etnie di uomini mai classificate, nelle tane buie delle miniere, nelle bocche dei cetacei e fuori da ogni confine terrestre. Ma nella banalità, in quella che altri uomini avevano definito banalità, lui combatteva sprezzante battaglie sopra battaglie e guerre e più maestose disfatte. Si chiedeva come quegli uomini chiamassero banali, scontati, degli esempi di conformismo, di vita quotidiana. Si fermava a guardare dubbioso il quadrato illuminato di una casa e dentro vedeva un uomo che mangiava e in quella visione gli pareva di vedere un saggio leggendario, una sorta di profeta. Però rimaneva a mormorarsi dentro la parola "banale" e più la pronunciava più si domandava se esistesse davvero. Banale. Banale? Ba-na-le. Bana-le. Banana? Bamale? Gli sembrava ora una parola strana e prese a ripetere il suo nome ottenendo lo stesso risultato. Si insinuò il pensiero che le parole si sarebbero potute sciogliere al sole ed evaporare sotto forma di coriandoli. Le persone si sarebbero scambiate due coriandoli. Rise e siccome aveva sentito il nascere di un pensiero profondo, iniziò a correre velocissimo tra i palazzi. Le persone che lo circondavano, le giornaliere umanità, credettero che tra breve avrebbe perso il treno oppure un appuntamento, ma lui, consapevole dei loro pensieri, sfuggiva dai suoi che nessun altro si era mai azzardato ad avere.

23/01/12

Mirtilli d'inverno

di Cristina Taliento

Torneranno i tramonti
senza che io ritorni
e le pianure che mai più vedrò
saranno verdi un'altra volta;
il pettirosso sul biancospino
morirà e risorgerà di nuovo,
ma quello che mi vide crescere,
quello non tornerà.
Spareranno al cielo i cacciatori,
i cani da lontano abbaieranno
e il freddo tornerà su queste terre
insieme ai temporali,
alle piogge silenziose e lisce;
ma quei freddi e quelle piogge
dentro cui correvo sola
lavandomi dell'amore
che tu non hai mai voluto,
quelli spari e quei latrati
risuonanti nella quiete dopo
l'ultimo straziante pianto,
quelli non si ripeteranno.
Partiranno ancora i treni,
e gli addii ritorneranno,
ma quell'addio detto sul ritorno,
quando tutti ci guardavano
senza che noi lo facessimo,
sguardi bassi e mani in tasca,
quell'addio non tornerà.

21/01/12

La metamorfosi idiota (V)

di Cristina Taliento


(Illustation by Hannah Muller)



Quella notte si svegliò nel buio scheggiato dalle luci aranciate che entravano dalla finestra. Le polveri del sogno si disgregarono per far posto al saggio Orazio Flacco che, con tono perentorio, le disse: "Carpe Diem, dovrai morire". Sapeva fin dall'inizio che alla fine di tutto c'era la morte, ma quella notte, nel buio, capì che ci sarebbe stata davvero. E allora prese a sudare nel letto, a deglutire spaventata, a respirare forte e desiderò di non essersi mai svegliata e di non essere mai nata. All'improvviso decise che a ventisette anni si sarebbe suicidata e poi si chiese perché ventisette e non trenta oppure quaranta. Allora pensò al gas, poi al mare, alle pistole dello zio Luigi, alla morte teatrale di Petronio, alle droghe, alla guerra. Poi si mise a pregare. Recitò il Padre Nostro a bassa voce, intensamente, con gli occhi strizzati e sofferti, le mani intrecciate sulla fronte. Sia santificato il Tuo nome, adveniat regnum tuum, fiat voluntas tua. Quella notte, a diciotto anni, capì. Come in cielo et in terra. Capì. Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Capì che un giorno sarebbe davvero morta. Ma liberaci dal male. Morta. Sed libera nos a malo. Divenne adulta. Sed libera nos... adulta. Amen.


"Perché non hai imparato a memoria la poesia?" urlò l'indomani sbattendo il cartoccio di giornale sul tavolo. "Questi sono impegni! Non è importante il voto, ma tu hai ignorato un dovere. Mamma, non la stai educando!- disse, poi, con tono sprezzante- Tu devi studiare, hai capito? Perché non si tratta di questa poesia o del voto, ma della tua testa grezza che non avrà un posto nella società. E tu, tu, mamma, non la devi giustificare!". Si alzò da tavola mentre sua sorella piangeva. E si domandò come mai lei, lei che prima era stata così giovane e illuminista, tutta rock e Giovanna D'Arco, come mai lei che prima aveva criticato la scuola inneggiando nel nome di poeti drogati, avesse poi inscenato quel discorso tanto adulto e severo. Si domandò se avesse davvero pronunciato "società" come qualche mese prima avrebbe gridato "infinito". Aveva negli occhi il rispetto di suo padre che non l'aveva ribattuta, nè cacciata, ma soltanto ascoltata e quasi approvata. E forse l'aveva sentito mormorare "Bene, ascolta tua sorella". Era una sorella maggiore; poteva essere uno di quei passanti dalle spalle sempre tese e sicure sui cui si appoggiavano i figli. "Società" aveva detto società. Lei, che l'aveva sempre odiata, la società.


Disse che doveva uscire con gli amici e poi deviò per la casa di riposo perché voleva guarire e credette che quella poteva essere la cura. Anna Frank aveva scritto che i giovani, alle volte, erano più soli dei vecchi e, stando a questo, lei era giovane, era vecchia, era sola due volte. Ma andare verso i vecchi era anche come andare incontro a Dio, al senso della vita. Si stupì del modo in cui si sedeva ad ascoltare in silenzio quegli antichi discorsi vani, quella canzone che faceva -Vivere... senza malinconiaaaa, vivere... senza più gelosiaaaa- e di come anche lei continuasse piano - senza rimpianti, senza mai più conoscere cos'è l'amoooore, cogliere il più bel fiore, goder la vita, far tacere il cuoooore-. Con i vecchi ritornava ad essere giovane perché essi avevano pensieri leggeri e se li avesse disegnati li avrebbe dipinti seduti su enormi poltrone volanti. Alcuni di loro avevano dimenticato la società, altri avevano confuso i novant'anni con i trentadue e non c'era niente che con loro fosse lineare, ordinato. Il nome con cui si era presentata alcuni di loro non lo ricordavano più nemmeno dopo due secondi ed era per questo che il tempo, in generale, il ricordo, arrancava nella sua limitatezza. E allora giovane, vecchio, vita, morte, felice, triste, sano, malato smettevano di esistere ed era un valzer di pianti, di urla isteriche, canti e persone da soccorrere. A lei piaceva sorvegliare da lontano quelle voci e pian piano sentiva la sua poltrona di velluto blu alzarsi oltre il lampadario, sfondare le pareti e volare sopra i tetti illuminati delle case. Si metteva a piangere quando qualcuno di quei vecchi moriva, ma imparava osservando la calma di chi rimaneva. "Perché piangi, giovane?" le chiedevano gli amici più intimi del defunto. "Perché piangi, perché?". E lei rispondeva: "Ma come perché...". E loro pazienti le spiegavano: "Non si piange per una nascita, non si piange per una morte. Questa è la vita, tu ancora non lo sai..."; "Si piange solo finché c'è vita eh eh eh"; "Lei ancora non lo sa!"; "Si, lei non ha ancora capito". Allora ella concluse che non aveva ancora capito e che non avrebbe probabilmente mai smesso di capire. Eppure rimase zitta, contemplando il vuoto.

14/01/12

La metamorfosi idiota (IV)

di Cristina Taliento





(Number 8, Jackson Pollock, 1949, oil, enamel and aliminum paint on canvas, Neuberger Museum, State University of New York)



Decisero, infine, che parlava troppo poco. Non c'era da fidarsi. E che, peccato, il diavolo si era preso un'altra di quelle anime con i capelli spettinati e i jeans larghi e brutti. Uno dei ragazzi del bar pensò che erano larghi, ma non brutti e poi si chiese cosa avrebbe pensato lei del diavolo e della pubblica approvazione. Triste si disse che in quel momento lei era nel vento, a caccia di sè, lontana dagli uomini, dai loro giudizi, tra la gramigna e il grano, stelle e luna, nidi di vespe, luce, buio. Sbadigliò, poi sospirò un addio nella notte e la dimenticò poichè capì che lei aveva deciso di partire per la sua guerra di sangue e mai più l'avrebbe rivista. Infatti, non tornò. La rivoluzione le morse il collo e per liberarsi non si uccise, al contrario, perseverò. Conobbe una volpe e la tenne sulla spalla; legò il capo con uno straccio d'indiani e corse in pianura ululando in discesa e costruì una casa con i tronchi degli alberi. Dopo aver vagato nella nebbia di una brughiera immaginaria , affermò che si trattava di una metamorfosi idiota. E per non piangere sul tempo, scrisse che il tempo non esisteva affatto e che ogni cosa nasceva e moriva ogni giorno e non c'era nessuna trasformazione continua, nessuna storia negli anni, solo fotografie di attimi in cui ella si contraddiceva continuamente, infedele alle sue vecchie convinzioni, al vecchio taglio di capelli, agli amori. All'improvviso fu atterrita, seppure consolata, dall'idea di un presente eterno e distaccato dal passato, anzi un presente dove al posto del passato c'erano cumuli di diapositive di altre bambine bionde che dicevano di essere lei e alle quali rispondeva no, adesso tu non ci sei più. E sorrideva al pensiero di vivere un giorno e poi svanire la sera e rinascere un'altra, più invecchiata e più calma. Quando i pastori tedeschi la accerchiavano ed i proprietari delle campagne si avvicinavano a chiederle "Chi siete?" lei gridava "Una ribelle!" perchè se avesse risposto nessuno, come più sentiva, quelli avrebbero sparato e poi, pur sempre da ribelle, sarebbe morta.

10/01/12

In difesa di G. Queltale

di Cristina Taliento



(Francisco Goya)


Prego, scusate, io mi vorrei alzare da questa sedia. Io mi vorrei mettere in piedi e difendere Queltale, quello lì. Insomma si, quello che adesso sta attraversando la strada. Suvvia, non so come egli, Queltale, si chiami. Non è questo il punto, voglio dire. Invece, se mi permettete, voglio dire che Queltale non ha colpa e che voi, alcuni di voi lo giudicheranno colpevole, ma io voglio affermare che Queltale è innocente, qualunque siano le vostre accuse. Tacete, vi prego. Non stiamo qui a farne un problema. Secondo me, Queltale non ha colpa, come ho già detto, e se ha tradito non credo che volesse farlo davvero e, se ha ucciso, l'hanno costretto. Oh, signora, si calmi prego, crede davvero che stia inneggiando all'assassinio? Non sto dicendo questo, mi dispiace se le l'abbia fatto pensare, molte volte non riesco proprio ad esprimermi come vorrei. Però rimane che lui è beh, si beh, innocente! E, sentite, basta guardarlo: attraversa la strada e, secondo voi, voglio dire, voi immaginate che sia colpevole di qualcosa, che abbia qualche cieca intenzione, che complotti contro il mondo? Queltale sta camminando ed è innocente, sissignore. L'umanità tutta, ecco, per dirla in breve, è innocente per la stessa ragione per la quale non si può condannare un bambino. Oh, si certo, potete sbatterlo, questo bambino, in qualche riformatorio per ragazzacci, ma poi tutti i giudici diranno che egli è... un bambino. E Queltale, si, ecco, lui, ha 50 anni, ma siccome non sa niente di questo mondo e siccome 50 potrebbero corrispondere pure a tre nanosecondi di un altro sistema, per come la vedo io, non si potrebbe assolutamente accettare che qualcuno così, mettiamo Untale, lo accusi di qualcosa. Ripeto, meglio: Untale non può accusare Queltale come Queltale non può accusare Untale poichè mancano le prove della loro stessa esistenza. Oh, signora, chi ha mai parlato di anarchia? Sto solo cercando di esprimere un pensiero in difesa di Queltale. Va bene, signora, ha ragione lei. Si, ha ragione lei e le spiego pure il perchè: sono piccola, saccente, non so niente di niente e mi devo stare pure zitta.

03/01/12

La metamorfosi idiota (III)

di Cristina Taliento




(La morte di Chatterton, Henry Wallis, 1856, Londra, Tate Gallery)


L'adolescente si sentì grande d'un tratto e pianse di rabbia coi denti stretti e i pugni chiusi perchè il tempo era passato prima che l'avesse potuto afferrare, atterrare, e con mano d'artiglio graffiare e annusare fino a possederlo del tutto. Si guardava le mani, quelle meschine mani d'adulto, e vedeva il ricordo delle sue piccole impronte che lasciava per gioco sui vetri quando tutti gli altri bambini rincorrevano le lucertole. E dopo aver pianto scopriva ripugnato di aver atteggiato il volto con la stessa espressione della vecchia zia paterna che mai era stata giovane, che mai e per tutti i mai del mondo, si era innamorata. E allora pensò di stare per morire di ogni morte inventata dall'uomo. Si immaginò mentre camminava frettoloso lungo un ponte e un attimo dopo ecco che sulla strada non c'era più perchè era scivolato di sotto. Si vide in quei viottoli scuri delle San Francisco dei film e si vide sparato al petto da un uomo col volto scuro che un attimo prima aveva gridato: "Sarai più morto di James A. Joyce". E lui, teatrale, aveva risposto: "Ecco, sparami! Sparami poichè allora non sarò morto affatto!". Ma vedeva la morte ovunque e ne era ossessionato. Gli sembrava che la realtà fosse un melodrammatico scherzo senza autore dove i personaggi si riducevano alle apparenze e oltre di queste non c'era nient'altro. Rimaneva a fissare contrariato il professore e si borbottava dentro che la cultura e la letteratura servivano soltanto a corrompere l'anima con i pensieri di idioti megalomani a cui un diario privato non bastava. Era nervoso. Nessuno poteva toccarlo. Un suono! Un suono lontano gli faceva battere il cuore e nel buio se ne andava ad appoggiarsi al muro preso dagli incubi irrazionali della sua mente. Talvolta il lago gli restituiva la sua faccia trasformata e gli pareva che la metamorfosi fosse continua e devastante e che persino nell'acqua potesse vedere quei lineamenti infantili perdersi per sempre e piegarsi e allargarsi fino a dissolversi e volare nel vento come cenere. C'era poi un'altra fissazione che era quella per i vecchi. Passava molto tempo con loro più di quanto non lo facesse con i suoi coetanei e frequentava molte case di riposo della zona senza sapere il perchè. Ma la ragione era la sua curiosità nella vita, in quello che la vita lascia quando sta per finire. Per esempio, l'evoluzione di un semplice gesto che il tempo ha migliorato, forse, avvicinato alla perfezione. Quindi studiava quegli atteggiamenti cauti di portare la mano alla fronte, le dita ossute che si appoggiano sul ginocchio, l'annuire paziente e sereno, la luce brillante di follia negli occhi quando i discorsi diventano ricordi e unità infinita. Tuttavia aveva paura di morire vecchio perchè, affascinato dalla Bellezza, voleva vedersi giovane per sempre. Che cos'era la Bellezza? Lui non lo sapeva, ma ogni volta che se la trovava davanti il respiro moriva in lui e desiderava di scappare lontano e correre fino ai boschi del Canada, facendo a nuoto l'oceano per non pensare che in lui, in quel corpo d'adolescente, essa non c'era. E, infine, accadeva spesso di sentirlo gridare di un urlo squassante sopra le colline di santa Giuditta e di vederlo strappare l'erba fino a quando, stanco, si addormentava di un sonno ammalato e umido di lacrime.