29/03/11

Cappuccio rosso e il lupanare

di Cristina Taliento
tratto da Le petit Chaperon Rouge di Charles Perrault
Tanti e tanti anni fa in una casa ai margini del bosco non c'erano che rampicanti schifi ossessionati dalla voglia di allungarsi fino all'infinito per succhiare dalle pareti ogni briciolo d'intonaco e di buon costume. Dentro quelle stesse pareti una madre spudorata cresceva le inquietudini della figlia cucendo abiti di colore non bianco, non rosa, ma curiosamente rosso. Quel rumore del telaio a tutte le ore svegliava Cappuccio dai suoi sogni confusi; la madre la vedeva scuotersi piagnucolando in quel mantello rosso e faceva il verso che si fa per chiamare i gatti e la bambina riprendeva l'incubo dove l'aveva lasciato.
"Cappuccio, oggi porti queste cose alla nonna." disse un giorno la mamma mentre infilava nell'ago dentro filo di cotone rosso. "Ma mamma... " "Fai quello che ti ho detto" "Ho paura nel bosco, non mi hai mai insegnato qual è la strada giusta" "Bugiarda! La strada te l'ho indicata milioni di volte" ribatté la mamma pungendosi con l'ago e dal suo polpastrello prese a sgocciolare sangue rosso. "Non me l'hai mai mostrata di persona..." disse piano Cappuccio. "Ne vogliamo fare un problema?" chiese con tono freddo la madre. "No mamma... io..." "Bene, adesso vai. Oggi passa il cacciatore per prendersi la tassa sulla sorveglianza del bosco. Devo accoglierlo come si deve." Cappuccio intese quelle parole come forse nessuna bambina della sua età avrebbe fatto. E forse era per rabbia o per ripicca che quel giorno, in quel bosco, lei non prese la strada che sua madre le aveva soltanto indicato con indifferenza dall'uscio di casa. Quel giorno, in quel bosco, Cappuccio volle sperimentare un'altra strada che a lei parve più sicura perché sconosciuta. Si disse: "Voglio andare". Mentre camminava nel buio dei cespugli fitti si ripeteva "voglio avanzare ancora". Più andava avanti e più guardava in faccia la sua inquietudine; rivedeva l'incubi delle sue notti, della sua ingenua vita così tanto macchiata da quel costante, infernale, spaventoso colore rosso. "Non ti muovere" ringhiò alle sue spalle un lupanare. "Non ti ho fatto niente" prese a piagnucolare nuovamente Cappuccio. "Stai ferma, sciocca, voglio solo farti domande" ripeté il lupanare. Cappuccio annuì fingendo tranquillità. "Dove stai andando?" "Da mia nonna, mio signore, è m-m-alata" balbettò la bambina con timore. "E' forse questa la retta via per andare a trovare la nonnina?" chiese il lupanare alzando il muso con sospetto. "Ho smarrito la retta via da molto tempo, mio signore" "Oh... non devi sai?-disse con un ghigno- Vedi, è buona cosa prendere sempre le strade note perché qualora noi volessimo imboccare quelle sconosciute, sarebbe giusto o necessario chiedersi cosa ci spinge ad abbandonare la luce per l'ombra, il noto per lo sconosciuto, il sentiero per il bosco." Cappuccio fece un inchino con la sua mantellina di colore rosso e si congedò aumentando il passo per allontanarsi da quelle domande così scomode. Arrivò a casa della nonna e chiese di entrare. Qualcuno rispose e un brivido le corse sotto la mantellina di quel perseverante colore rosso. "Vieni avanti" La bambina riconobbe la voce del lupanare, senza tuttavia riuscire ad avere il pensiero di scappare, fuggire dalla finestra con le scarpette in mano, catapultarsi nel bosco urlando. Quel che fece fu avvicinarsi al letto con passo silenzioso e impacciato. "Ciao nonna" mentì Cappuccio "Bambina mia" borbottò il lupanare da sotto la cuffia di seta bianca. Cappuccio fece un passettino sul posto e studiando il colore della sua mantella disse: "Nonna... che occhi grandi che hai quest'oggi" Il lupanare rispose: " Sono per guardare meglio le tue debolezze". Cappuccio deglutì. Poi disse: "Nonna... e che orecchie grandi che hai quest'oggi" "Sono per ascoltare meglio le tue ultime suppliche" "Nonna... -disse conoscendo già il suo destino- che bocca grande che hai quest'oggi" Il lupanare si tolse la cuffia bianca e affondate le zanne nella mantellina rossa, disse: "E' per dilaniarti definitivamente, meglio di tutti gli altri messi insieme. Puoi fidarti, bambina mia".

20/03/11

In morte di uno spermatozoo

di Cristina Taliento

Questa storia non è mai esistita. Il protagonista sarebbe potuto essere un suonatore di fisarmonica dalle belle mani. Tuttavia accadde che lo spermatozoo da cui egli avrebbe dovuto svilupparsi inciampò nel flagello di un altro suo compare proprio mentre stava per arrivare al traguardo. Il personaggio non fecondò mai l'ovulo. Storia mancata.

12/03/11

Il cuore spezzato del signor Carpe Diem

di Cristina Taliento



Il signor Effe ha contratto il morbo del Carpe Diem! Così hanno detto i medici altissimi in fondo al corridoio mentre prendevano le penne dai loro camici bianchi bianchi. Il signore Effe - io non posso dire il nome perchè potrebbe suonar strano e poco sonoro- il signore Effe dicevo dorme immobile sul fianco destro, ma c'è una specie di sveglia nel suo cervello; una sveglia che lo fa scuotere tutto d'un tratto e gli fa dire con voce possente, alle volte un po' stridula, "Carpe diem!". Non passa molto tempo ed ecco il signor Effe-giacca e cravatta, tre di notte ancora- pronto con la sua valigia ad andare in giro per la città, saltando in mutande da un autobus all'altro senza minimamente guardarsi indietro. Pazzo! Sciagurato! Ma no... ma no... "Io son colui che frega tutti quanti, io mica come voi, io con voi non c'entro niente!". E così pensando il signor Effe fa un inchino davanti alle vetrine ed intanto si ripete in testa la poesia di quel tale francese-ora non ricordo il nome-insomma, quel tale che diceva "Cogli l'attimo, cogli la rosa". Lui ripete la filastruccula con uno silente movimento dei baffi, come se in bocca si stesse lavorando alla masticazione di un fagiuolo crudo. Oh, signor Effe! E sputalo 'sto fagiolo! Ma che, m-a che co-sa stai di-cen-do! Lui non mastica alcunché, lui sta assaporando i versi di quel tale francese e nessuno può impicciarsi. Il signor Effe vuole vivere la vita fino a succhiare ogni singolo minuto. Così con l'occhio di un rapace egli non guarda, bensì scruta. Oh... dovreste vedere i suoi occhi. Che demonio! Che ammiraglio nella nebbia! Attento a non perdere nessun particolare del suo mondo, nemico segretissimo di ogni perdita di tempo. Ehm, ehm. Lui: prode, illustre, cantastorie, filosofo, fuorilegge, codardo fino all'ultimo attimo colto e stravissuto con tanto di attestato firmato e strafirmato che ribadisce la sua bella, accurata, ricerca dell'Interessante. Ma via, ma via. Signor Effe? Che cosa ci guadagna a girare, girare come un asino da fiera, un oratore da strapazzo che ogni giorno, sul suo bel piedistallo di aformismi greci, alza il braccio e magnificamente esclama: "Carpe diem". E così sia. Alza quella schiena, e stai dritto, confessa l'amore al primo vento, mangia sano, vai lontano, guarda su, schiena dritta, non aprire quella porta, cosa hai detto? Non si sente un tubo. Il signor Effe è affetto dal morbo del Carpe Diem, prego. I medici l'hanno scritto sulla cartella clinica e senza nemmeno salutare si sono infilati il cappotto e se ne sono andati temendo il contagio. Povero signor Effe... Un caso disperato, come dice la gente: un caso disperato, non c'è che dire. Ha una paura così infinita del tempo che si allaccia l'orologio al contrario, dalla parte della pila. Ma davvero? Si si, te lo posso giurare, parola mia. Quest'uomo-il signor Effe, e chi altri?- ha un album di fotografie gigantesco che è talmente grande da occupare una stanza intera. Tutte le volte che qualcuno bussa alla sua porta, lui intreccia le dita sulla pancia e, con qualche passettino sul posto, propone: "Che si voglia per caso guardare le immagini dei momenti per sempre miei?". E non c'è verso di opporsi perchè lui, il signor Effe- foto in mano e sorriso affermativo- mostra orgoglioso il tempo, spiaccicato, spalmato, rullato sotto una pellicola plastificata. "Ma che carina questa ragazza, chi è?" chiede il suo ospite guardando la foto. Il signor Effe si gonfia come un pavone e afferrandosi la caviglia esclama: "Laura, 1989. Amore dichiarato, attimo colto". "Ahaaaa- fa l'ospite meravigliato, pieno di ammirazione- ahaaa!". Guardano ancora le foto e quello chiede ancora: "e qui? e qui? dove stai, cos'è, un ufficio?". Il signor Effe finge di guardare meglio, si gratta l'orecchio, poi velocemente dice: "Perdere il lavoro o prendersi quello del capo, 1978. Carpe diem!". E così via. Il tempo schiavo del signor Effe; la vita del signor Effe schiava e serva, serva e sguattera. Cercare! Cogliere! La giovinezza fugge! E poi vivere fino alla nausea, fino allo sfinimento con l'ansia e la noia, la paura di non riuscire a vivere fino in fondo. La paura schifa di annaspare nei ricordi e nel tempo perduto e tra i cappelli spariti, gli ombrelli mai più ritrovati della tua vita, della mia vita, di quella di tutti gli interessati ed i non interessati. Signor Effe, suvvia... non pianga! Si sa che, dopotutto, la vita è fatta anche di rimpianti e se non la smette di mangiare il tempo, il suo rimpianto sarà quello di non aver avuto il pensiero di star fermo. Ma, per l'amor di Iddio, non pianga... chi le dice che sia io ad aver ragione... magari fa bene lei a vivere di stracci, momenti infiniti e fiati persi, di tutta questa avidità di vita che da sempre va cercando. Non sarò io, signor Effe, non io... Ho già diciassette anni e puzzo ancora di latte.

05/03/11

Madrigale dell'amore non corrisposto

di Cristina Taliento
(Il Galata Morente- II secolo a.C.-Roma, Musei Capitolini)

Può l'amor non corrisposto far scordare
la bellezza pallida di un'alba che sorge
o la natura tutta per sempre offuscare
sotto il pensiero di un chi di te non s'accorge?

Ripudiavamo il dolce stil novo della poesia toscana
maledicendo Laura e chi di lei s'era invaghito
poi ci osservavamo rincorrere quella rima lontana
annullando noi stessi con la pioggia e l'infinito.

Amore non corrisposto dell'età mia immatura,
di silenzi, pensieri convulsi e vento contro
parole non ho che da offrire per questa pittura
se non il ricordo bugiardo di quel primo incontro.

Eppure mai il nostro cuore ha pianto un giorno,
hanno riso gli occhi senza tuttavia levarsi al cielo
chè quando il treno barcollava sul ritorno
guardavamo le mani di una suora strette s'un Vangelo.

-Non ci cascare!- già nel tramonto i venti lo gridavano
mentre gli uccelli fendevan bassi la lavanda;
gli alti giunchi innamorati delle rose s'inchinavano
ignorando teatralmente la nostra, la mia domanda.