22/01/11

Storia ordinaria senza luna

di Cristina Taliento

(Hiroshige Utagawa, 1797-1858)

Il treno arrivò, inghiottì la stazione; le ombre ritte sul binario quattro arretrarono d’un passo e si coprirono i lunghi nasi con i baveri delle giacche per non aspirare i vapori. Fiuuuuu strillò il treno. Crepa, idiota brontolò qualcuno. Una nuvola di gentaglia uscì dalle porte, tutti con gli occhi bassi, tutti santi criminali e mangiatori di carne. Bleah, che schifo il peccato, luridi bastardi- biascicava un barbone con un sorriso da cane- verrà un giorno, verrà un giorno… io dico, verrà un giorno. E in quella nebbia di pensieri comuni, propositi vani, ossessioni perverse, profumi sovrapposti ai fumi e alle bugie che inventavano di continuo i rossetti rossi e i baffi dei gentiluomini, Francesco si faceva strada con il suo bastone di legno, con il suo passo lento e rassegnato di chi ha smesso di bere per mancanza d’ispirazione. Tossì schermandosi la bocca con il manico della sua chitarra ed intanto andava dritto fra le occhiate della gente che dicevano “adesso sei un fallito come noi”. E se avesse avuto un attimo, un attimo soltanto per intonare una canzone forse avrebbe riposto a quelle occhiate con La ballata del successo oppure con Quando i lupi scesero a valle, ma la voce non gli bastava più neanche per dire “sto cercando Via fratelli Verri” e così stava zitto. Un artista senza fama che nelle tasche aveva le mani e non oro e non incenso, neppure un rimorso, nessuna idea, non un dilemma, una questione da risolvere, non un’isola da raggiungere. Neppure lei. Ma lei se n’era andata a sessantaquattro anni dopo una vita intera dietro un grembiule e Francesco all’inizio aveva aspettato con le mani appoggiate sui braccioli della poltrona. Poi aveva messo i suoi quattrocentotrent’anni dentro la custodia della vecchia Fender ed era andato a comprarsi un biglietto. “Per Roma” aveva detto piano.

In un altro tempo, in un altro spazio il giovane Cesco affilava le pietre che lanciava nel fiume. “Cesco, ci vieni al torneo di scacchi?”

“Si, ci vengo”

“Don Sebastiano però ha detto solo quattordicenni. Tu ce li hai quattordici anni? ”

“No, quattordici no…”

“Bella schifezza! Quanti ne hai?”

“Io, dodici”

"Oh... e com'è che non le prendi da quelli più grandi?”

"Mordo"

"Ah. Io vado"

Cesco annuì e rimase a guardare il fiume pensando che mai avrebbe avuto il coraggio di tuffarsi sul momento. Quindi, preso da uno spavento improvviso di restare un vigliacco a vita, indietreggiò di tre passi e si lanciò nell’acqua gelida pensando che se non l’avesse fatto sarebbe stato più gelido lo stesso. Auuuuuu gridò con la sua bella voce di rabbia. Auuuuuu gli rispose un pesce buffone da dentro l’acqua. Qualche ora più tardi camminava spavaldo con i vestiti inzuppati di fiume e le vecchie che uscivano dalla messa si davano il gomito e criticavano la presunta noncuranza di sua madre. Cesco fischiava; fischiava scontroso come un uragano. E al tramonto tornò a casa con un pacco di sigari nella giacca. Un pacco di sigari rubati a dodici anni. “Non fare il ribelle con me” aveva urlato sua madre. “Mamma, io parto domani” aveva risposto lui una settimana dopo. Sarebbe andato in cerca del cantautore Francesco. Aveva sentito che si esibiva in Via fratelli Verri. Forse se prendeva il treno poteva arrivare in tempo.

Intanto, il vecchio Francesco vagava per le vie senza che nessuno gli chiedesse un autografo o una fotografia. Doveva trovare il teatro dove avrebbe cantato come ai vecchi tempi, con gente che si abbeverava dalla sua musica. Trovò via Verri, il teatro. Aggiustò i fili sul palco, accordò la chitarra e guardò l’orologio. Era tardi… non sarebbe venuto nessuno.

Intanto Cesco corse a perdifiato fino alla fine della via. Poi si fermò davanti al teatro. Si tolse il cappello ed entrò lentamente, vergognoso. La platea era vuota, ma sul palco, un fascio di luce chiara illuminava un uomo anziano e la sua chitarra. Cesco smise di respirare e si sedette all’ultima fila buia. Quella musica provava l’esistenza di un’anima. Estasiato, colpito allo stomaco, quel piccolo animaletto ribelle si curvò dall’emozione. Un rivolo di lagrima scendeva sul volto del ragazzino e le manine sporche di terra tendevano verso il palco come per afferrare quelle note dolci di musicista stanco. Si sciolse la rabbia, si sciolse come gelati in mano ai bambini al tramonto. Francesco dal palco non si accorse mai del ragazzino, dell’effetto che aveva avuto su di lui. Tuttavia, se Francesco avesse notato l’animetta guarita tra le file di posti, avrebbe visto soltanto un mezzo adolescente nell’ombra e mai avrebbe pensato che quel Cesco non era che lui qualche giro di lancette indietro.

08/01/11

La postura del disilluso

di Cristina Taliento

Il mio cane è scappato e sono andata a cercarlo in autostrada. Appena uscita da casa ho visto un cartello dello stop e sopra la parola STOP qualcuno aveva scritto don't e poi sotto 'believing'. Non smettere di credere. Mio Dio. Così mi sono stretta nelle spalle e ho continuato a camminare, mantenendo la destra per non essere investita. Poi ho visto una berlina accartocciata contro un albero e sono andata a vedere che cosa ci fosse dentro. Ho spannato l'umidità dal vetro con la manica della felpa e ho visto un giovane con lo sguardo fisso e la bocca socchiusa. Mi sono accorta che era morto già da qualche ora. E la radio nella macchina era accesa e Jhon Lennon nella radio cantava Let it be, così io l'ho cantata con lui, ma il pianto inghiottiva le parole e mi sono voltata. Ho ripreso a camminare come pioggia, mentre le macchine dai finestrini scuri mi passavano accanto come fruscii di fantasmi. Stavo guardando la campagna dietro il guardrail e ad un tratto, fra gli ulivi, ho visto delle donne vestite di nero che vegliavano su una dozzina di corpi in divisa mimetica. Tutto intorno c'erano dei carri armati con la croce rossa. Mi è sembrato di sentire un suono sommesso di tromba, ma forse mi sbagliavo. Una bandiera tricolore splendeva tra le chiome degli ulivi e un vecchio sputava e strillava: "Treciento, eran treciento! Eran giovani, eran forti e 'mo dormono tra i vermi!". Così mi sono messa il cappuccio della felpa e sono rimasta in piedi a valutare la tenerezza dei miei sogni e l'ingenuità delle mie speranze, mentre le madri si tenevano la fronte con la mano. Poi quel vecchio mi ha detto: "Che poi... l'amore è forte come la violenza". Ho annuito e me ne sono andata senza neanche guardare il tricolore per l'ultima volta.
Dopo ore di cammino sull'autostrada, ho incontrato un autostoppista nero e siccome ero triste mi ha detto: "Ehilà, hai perso qualcuno? Perchè quegli occhi tristi?".
"Non trovo il mio cane" ho risposto io.
L'autostoppista ha preso il Drum dallo zaino e si è costruito una sigaretta. "E come si chiamerebbe 'sto cane?"
"Ice-cream".
"Si chiama Dream?- non sentiva bene- Che bel nome! Dream!"
Io ho scosso la testa, ma lui mi ha bloccato un braccio ed ha esclamato:
"Ho capito! Hai perso i sogni! Sei rimasta delusa!". Io cercavo di dire no, no. Però lui ha continuato:
"Non devi, sai? Non devi proprio! Questa vita è una montagna di pezzi di bottiglia però tu, sorella, devi infilarti gli stivali! Guarda i miei, guarda come sono belli! Sotto questi stivali i vetri fanno crac crac". Erano degli stivali di plastica gialla. Li guardai per un po'.
"Non puoi mica stare a togliere dalla strada tutti i pezzi di vetro che ti capitano sotto i piedi!"
"No..."
"Non puoi mica stare a dire alla gente di ridarti i tuoi sogni"
"No..."
"Tu, sorella, sei fottutamente responsabile delle tue speranze".
"Si..."
"Tu, sorella, devi smetterla di strisciare i piedi come se non vedessi albe da un millennio!".
L'ho salutato. Stava venendo la sera.
Ho ripreso a camminare come la grandine, come il vento di gennaio. Stavo per sedermi quando ho visto una cattedra nella piazzola di sosta e dietro questa cattedra c'era la mia professoressa. Lei mi ha detto di trattenermi con lei perchè dovevo fare il compito di matematica a sorpresa. Mi sono seduta lentamente e ho preso il foglio. C'erano dei versi di D'Annunzio:
E piove su i nostri vólti silvani,
piove su le nostre mani ignude,
su i nostri vestimenti leggieri,
su i freschi pensieri che l'anima schiudeno vella,
su la favola bella che ieri m'illuse,
che oggi t'illude,
o Ermione.
Stava piovendo, il foglio si bagnò fino a scomparire. All'improvviso ho sentito, dietro di me, l'abbaiare di un cane. Mi aveva ritrovata.
Al ritorno non ho visto niente. Solo il buio, qualche volta, inchiodato dai fari sfuggenti delle auto.

02/01/11

Il secondo discorso del matto Genda agli allievi

di Cristina Taliento
Il matto Genda urlò come un capotribù. E poi disse:
"Avete paura, maledetti. Avete paura di sbagliare e vivere, avete paura di respirare e di muovervi. Siete dei vigliacchi e mi vergogno di avervi come allievi. Voi vi fate amministrare dal giudizio di chi vi vede troppo bassi o sovrappeso o poco credibili o poco folli o molto questo, poco quello... E mi fate ancora più pena quando vedo i vostri occhi che mi fissano in questo modo come per dire 'oh, hai ragione'. Statemi bene ad ascoltare, voi non dovete ascoltare nessuno, nemmeno me. Voi dovete fare quello che solo voi credete giusto, dovete fidarvi della vostra coscienza, della vostra sensibilità. Siete nati come essere unici e solo voi potete creare la vostra filosofia. Insomma, guardatevi. Che schifo! Guardate quella matta di Giulia; vi sembra giusto che non mangi da giorni per raggiungere il peso di una foglia? Al suo stomaco, no, non sembra giusto un corno. E tu, Riccardo... che diamine mi guardi così, razza di broccolo lessato? Mi fai una pena del diavolo... guarda come ti sei ridotto ad inseguire i sogni di gloria per una macchina nuova, una casa con piscina e una moglie accessoriata 180 pollici per 34. Vergogna, stolti! Io sarò anche un vecchio pazzo con le allucinazioni, ma voi siete delle larve striscianti affette dal morbo di questa società che inneggia il possesso a tutti i costi. Professoressa, buongiorno, come sta? Ha finito di dire a quel ragazzo che non sarà mai nessuno nella vita?"
"E come state voi, invece, signor Scassabanane, avete finito di chiedere scusa a vostra figlia per averla obbligata ad andare allo Scientifico? Lei non le vuole le vostre scuse, lei voleva andare all'Artistico, messere. Mi fate ridere da morire voi signori belli con le vostre facce spaventate... Ma non sto dicendo niente di grandioso e no, questa non è una di quelle crisi isteriche che amano inscenare le vostre stressate mogli... Oh! Le poverine! Sono stressate! Sono stressate perché il parrucchiere fissa l'appuntamento alle 4 a cinque persone, sono stressate perché da queste parti non si trova mai parcheggio, perché il fruttivendolo non sa parlare l'itagliano, perchè sputo mentre parlo, perchè ascolto questo rock che fa scatenare i santi, perchè il loro figliuolo non ha più voglia di studiare pianoforte... Ma signore, da brave, andate a ballare la salsa!! Le mie orecchie non ne possono più di questi 'oh serviti pure', 'oh ma è Chanel'. Beh, sappiate che distruggere il mio ultimo neurone, non è molto Chanel. "
"E adesso tornatevene a casa e domani andate pure a prenotare un altro lifting perchè io non ce la faccio più a spiegare il mondo a voi, poveri ebeti. Mi avete fatto venire il mal di testa."
Il matto Genda scese dal tavolo e se ne andò.
"Questa volta è uscito davvero di testa" disse il medico.
"Eh già... è matto davvero" rispose il banchiere, intrecciando le mani sulla pancia.