30/12/10

Decadenza e collasso di una stella

di Cristina Taliento


Erano le cinque del pomeriggio quando il signor Arnolfini- le braccia incrociate sul petto, i baffi scuri e il cappello in mano- disse:
“Lady Marianna, il mercato cinematografico ha richieste differenti da quello che lei ci può offrire. La Compagnia degli Aranci vuole investire in attrici, come dire, più… giovani.”
Il pendolo sembrò azzittirsi per qualche secondo. Arnolfini continuò:
“E poi lei, Marianna, ci costa troppo. E il problema… ehm ehm… il problema, dicevo, è che la Compagnia non può permettersi di regalare uno stipendio così elevato per un così basso profitto”.
Da lontano si sentì il telefono squillare. Qualcuno rispose. Riattaccò dopo poche risposte.
“Sono stanca-disse allora la stella del cinema, mentre posava gli occhiali sul libro chiuso- adesso vorrei che mi lasciaste sola”. Il signore e la signora Arnolfini, si scambiarono uno sguardo imbarazzato, deglutirono rigidi e presto uscirono dalla stanza. La diva Marianna rimase ferma nel punto in cui aveva parlato, in quella stanza piena di suoi ritratti dipinti da pittori francesi. Quello in alto a destra era di Hyacinthe Arnoux, fondatore dell’ Art de Nerval. Ricordava quando era stato dipinto; era il giorno successivo al debutto di Rose Solitarie. Il suo primo giorno di celebrità, quando i ragazzini iniziarono a collezionare le locandine dei suoi film sotto i divani. Guardò il dipinto per qualche minuto con le labbra strette ed i pugni chiusi, poi chiamò il maggiordomo:
Mohammad, voglio che togli immediatamente ogni quadro dalle pareti di questa stanza” disse con voce gelida.
“Bene. Vuole appenderli nel salone?”
“No.”
“Bene. Che ne faccio, allora?”
“Non lo so”
Il maggiordomo tornò con una scala e iniziò a togliere i quadri dalle pareti, mentre nel posacenere d’avorio bruciavano tutti i mozziconi della sua vita e di quella dei personaggi che aveva interpretato.
“Signora, devo togliere anche questo?” chiese l’uomo indicando il ritratto di Arnoux.
“Non sente?- disse a voce alta Lady Marianna, balzando in piedi e puntandolo con occhi infuocati- ho detto che devono sparire tutti. Bruciali. Falli a pezzi. Sotterrali in un cimitero dentro bare di mogano e poi esci in strada e grida ‘è morta, è morta! Marianna Serafini è morta!’ e se ti chiedono come, tu rispondi di si.”
Poi andò vicino al camino, appoggiò le mani sul freddo ripiano e guardò il fuoco. Iniziò a ridere con la bocca aperta, la testa inclinata. Poi, d’un tratto, si fermò con la rapidità di un maestoso rapace che ha sentito un rumore. Un pensiero, un lampo. Lentamente, andò al centro della stanza, fece quel gesto spontaneo di sistemarsi i capelli e il vestito, raddrizzò il collo e le spalle, si schiarì la voce e immaginò di ritrovarsi ancora sotto le luci abbaglianti del successo, sul tappeto rosso della vittoria, tra i mari di gigli bianchi e margherite che le venivano regalati dai suoi ammiratori.
“E’ curioso- disse con voce imperiosa- ritrovarsi ad essere, per una volta soltanto, la regina del mondo. Ancora sorrido quando vedo le nuove principessine del cinema che salgono sui troni per poi lasciarli dopo qualche mese. Ah! Credono di essere le più belle del reame! Le giovani stelle nascenti! Ma che cosa hanno davvero? Quale ricordo credono di aver lasciato nelle menti di ogni classe sociale, dopo il loro declino? Il nulla! Il remoto, desolato, sconfortato e patetico nulla! Solo io posso dire che cosa significa essere davvero una Stella! Ammirata dai re, applaudita dai cardinali, idolatrata dalle nuove generazioni ed eletta come donna di massima bellezza ed onore! La bellezza… questa parola, questa gioia vana che mi ha seguito, maltrattato, deturpato e ossessionato per una vita. Ma che cos’è la Bellezza, l’Estetica? Io ne ero padrona, ma ahimè non riesco a spiegarne l’essenza. Eppure ho la certezza che essa svanisce. A cosa credete che mi servirà il mio talento d’attrice privo di bellezza se non per recitare in qualche squallido bar della capitale? Dove pensate che sia andata la mia beltà se non nel passato, nei ricordi di chi è già morto? Ora, io vi chiedo di restare zitti e di assistere all’esplosione della stella più luminosa che i vostri occhi abbiano mai visto. Vi chiedo di tacere mentre la stella collasserà, lasciando al suo posto un profondo e desolato buco nero. Quello è ciò che resta. Ma state attenti, io vi dico, state attenti perché nemmeno gli scienziati più acuti sono riusciti a scoprire cosa possa contenere un buco nero, né la forza che esso sprigiona o la memoria di cui si è servito. Addio”

Il maggiordomo, abituato alle prove dell'attrice, non ascoltò il monologo, ma non fece a meno di voltarsi quando udì un fragoroso schianto di vetri e un tonfo proveniente da sotto la finestra.

27/12/10

Il muto

di Cristina Taliento



Iniziai a vedere il muto quando anch’io smisi di parlare. Forse c’era anche prima, però non me ne accorgevo. Lo vedevo soprattutto quando mia madre si lamentava dei miei silenzi o quando i miei amici si stancavano di non ricevere risposte. “Non sei più la stessa di qualche mese fa” mi dicevano ed io alzavo le spalle e me ne tornavo a casa, deviando per il sentiero dei cuccioli di cane, dove c’era un bambino che pensava di essere Superman. Non aveva nemmeno genitori, quel bambino, e voleva che io gli dicessi qualcosa come per esempio “che bel mantello” o “posso insegnarti a volare”, ma, siccome non volevo parlare, imparò a fidarsi di me quando vide che davo da mangiare ai suoi cani.
“Ehi, ehi, ma dove sei stata, me lo dici?” mi gridava mia madre quando mi sedevo a tavola.
“Eh -inventavo io- in Chiesa...” E intanto ridevo dentro per quelle risposte.
Il giorno dopo il digiuno di parole ecco che vedevo il muto alla fermata dell’autobus e se, invece, ritrovavo quella voglia di raccontare storie alla gente, non c’era verso di scorgerlo per giorni di fila.
La sua faccia mi sembrava di averla già vista su qualche periodico o in qualche sogno, non ricordavo. Quello che mi dava fastidio però era non poterlo vedere tutti i giorni, così smisi di parlare definitivamente e presi a marinare la scuola perché le interrogazioni comportavano uno spreco di parole inutile, uno spreco che io non potevo permettermi. Allora, lo vedi spuntare ovunque e non sapevo dire se fossi io a pedinare lui o viceversa. “ Che strano nascere senza una voce” pensavo. Alla fine, mi sedetti accanto a lui, nel parco. Si girò e mi salutò con un sorriso usato e strausato. Tirai fuori dallo zaino una lavagnetta e scrissi “Mi faccia il piacere di congratularmi con lei”. Il muto lesse per un secondo e poi mi strinse la mano, annuendo. Io continuai a scrivere:
“Deve essere proprio bello non avere una voce, lei è fortunatissimo -vidi che aveva letto, cancellai e scrissi di nuovo- Chissà che bello non stancarsi mai della propria voce e di tutti quei bla bla bla maledetti…”.
Scrissi proprio “bla bla bla maledetti”. Allora, il muto mi strappò di mano la lavagnetta e scrisse:
“Perché ti prendi gioco del mio handicap?”. Lessi quella domanda a mi alzai immediatamente dalla panchina e agitai furiosamente il dito indice a due passi dal suo naso come per dire “no, no”.
“Ma lei non ha capito-scrissi- io dico che lei avrà sviluppato una mente diversa da quella dei parlanti perché è stato svincolato per decenni dal dovere della risposta!”. Il muto lesse con attenzione per qualche minuto e aspettai che capisse la mia frase. Poi cancellai e scrissi sopra: “Tutte le volte che lei voleva informazioni si è ingegnato per trovare una risposta da solo, non è vero? Non dipendere dalla parola altrui è geniale”.
Ero in sollucchero. Il muto, annuì, ma poi scrisse: “A volte la voce sonora ti distrae da quella interiore. Tu puoi distrarti, io devo marcire nella mia coscienza”.
Aveva ragione. Continuò:
“Tu stai scappando dalla tua voce interiore”.
Aggrottai le sopracciglia e mi puntai un dito contro per dire “io?”. Lui agitò il capo. Poi si mise le mani in tasca e mi offrì una caramella. Feci segno di no. Poi scrisse, mentre il gessetto faceva strik strik:
“Trova la tua voce interiore e domala”.
E io: “E se io non volessi domarla? Se io avessi deciso di dire tutto o niente?”
“Sei proprio matta, santa ragazza”
“Io non voglio più parlare, punto”
Mi fece una smorfia che mi fece esplodere in una risata. Gli uccelli volarono dagli alberi.
“Capisci che i pensieri sono diversi dalle parole. Ed ora goditi la tua voce e lascia stare me, povero muto“
Io mi alzai e feci per farmi restituire la lavagnetta, ma lui mi bloccò e scrisse:
“Sono i pensieri ad essere più rumorosi, come la tua immaginazione bestia. Altrimenti come avresti fatto a capire che tra tutta quella gente solitaria ero proprio io il muto?”
Il muto se ne andò e quando alzai lo sguardo non c’era più. Me ne andai e capivo di più.

18/12/10

Diapositive e lampadine

di Cristina Taliento


(Pierre-Auguste Renoir)


Noi non vivevamo di ricordi. Avevamo dicissette anni ed un pacco di sigarette, ma io non fumavo perchè non avevo abbastanza garbo nel farlo. Fin da quando ero piccola e vedevo la mia splendida zia fumare, pensavo che tenere in mano una sigaretta era un po' come suonare una chitarra o, meglio ancora, un violino; le spalle, le dita, i polsi dovevano avere una certo stile del movimento, un' eleganza sfacciata, spensierata. Quella che io, tutto sommato, non credevo di avere. Per lo più, mi appoggiavo al muro con le mani in tasca e le scarpe consumate e partivo con l'intenzione di osservare chi fumava, ma poi lo sguardo inchiodava un particolare e rimanevo immobile, come chi ha perso ogni genere di maschera o difesa. Erano le sere invernali del sabato pomeriggio, quando stava per fare buio e nelle strade c'era quell'odore di cielo che non riuscivo a identificare. Da lontano si sentiva abbaiare dal canile e le voci dei miei amici sembravano accordate in un'unica sinfonia. Possedevamo la Bellezza nelle tasche dei nostri giubbotti, negli audaci sorrisi e in quella forza felina di correre nella campagna anche di notte, per sfida o per scommessa. I nostri passi affiatati facevano tu tum tu tum tu tum e le nostre sciarpe ci volavano dietro le spalle come i capelli lunghi e la malinconia. Poi finivamo a ridere come chi ha trovato il senso della vita e ci sentivamo fratelli bastardi, unico cuore, anima sola. Una volta Giulia ha impilato le mani di tutti quanti ed ha detto: "Giuriamo che mai ci tradiremo, che mai ci perderemo, che mai invecchieremo". Io ho tossito, mi sono portata indietro i capelli con una mano e Luca mi ha guardata per un attimo, ma poi ha detto subito "lo giuro". E io ho detto "lo giuro". E Giacomo, Ettore, Irene hanno detto "lo giuro", così Giulia ha sorriso e si è accesa una sigaretta e l'ha fatta girare in cerchio come se fosse stata una canna. Faceva freddo e stavamo tremando ed io volevo che qualcuno all'improvviso ci avesse scattato una foto, in onore della nostra Bellezza eterna. Ma noi non volevamo vivere di ricordi. Così quell'istante lo lasciammo libero, come quelle falene che ci volavano intorno e che non c'era verso di chiudere in un pugno.

08/12/10

Brindo

di Cristina Taliento

Brindo. A questo vuoto dei giorni che furono e che mai saranno. A questa assurda convinzione di morire a 27 anni, che mi spinge a fare di meglio. A questo libro di Voltaire capovolto sul pavimento insieme ai calzini e alle scarpe abbandonate della vita incerta. A queste immagini sulle pareti che in giorni passati io avevo eletto miei personali, santissimi, idoli, peccatori e che adesso non sono che carta, bucata, fallita, nel buio scomposta come pioggia gelata di fine dicembre. A questa domanda, “tu dove stai?”, che non accetta risposte da preti, né cartomanti, amanti, romantici consolatori, bugiarde carezze sulle spalle. A questo cielo sotto cui camminiamo senza parlare quasi come spaventati dal suono della nostre voci che non ci confermano la nostra esistenza, ma ci rendono schiavi della nostra percezione superficiale come se un suono a noi familiare possa rendere certo ed indiscutibile, nonché privo di dubbio, questo respirare, questo cuore che esce e poi ritorna, questi capelli che crescono, queste cellule che seccano come cespugli di rose. Eppure c’è questo grido sommesso che mi supplica di non avere fretta, presupponendo in qualche modo una mia capacità ad invertire le stagioni della ragione, come se io, piccola me, potessi porre un limite alla mia confusione, come se io, debole me, potessi offrire qualcosa di più di un sorriso, come se io, impacciata me, potessi tendere la mano tremante all’infinito. Ma la tensione dei miei muscoli si accorcia e si annienta davanti ad una prospettiva di eterna continuità come se non fossi stata concepita per comprendere il vero ed allora cado, nuda di quelle pretese, e affondo gli occhi nelle ginocchia ed ho il vago sentore che anche la ricerca della verità non sia che un falso pretesto, un gioco bizzarro, una scusa, un modo curioso per vivere e tacere pensando che pur esiste una ragione, che pur esiste il senso di tutto. Le nostre paure scacciate dalle ambizioni, i nostri dubbi spazzati dalle vanità, le nostre domande soffocate dalla quotidianità. Questo vivere e vivere e correre e saltare e salire sui treni e pisciare e dormire, masticare, tossire, lenire, curare, idratare, sta schiacciando il mio più grande e vitale “non so”, la cui scomparsa, in verità, potrebbe allettarmi le giornate, tuttavia velerebbe per sempre i miei occhi da quel tessuto grezzo che è la rassegnazione, la sconfitta e la malinconia di un giorno di maggio passato al lago a pescare.