29/08/10

Scappa scappa, vigliacca

di Cristina Taliento
E se vuoi, questi fogli scritti puoi chiamarli casa oppure puoi farci un aereoplano e spedirlo dritto nel cielo con un movimento fermo e arrabbiato, con quella faccia contrariata che mostri quando hai paura. Che se ne frega il mondo di quando lo mandi al diavolo ed imprechi contro il poster di Dylan che guarda verso di te e si chiede perché. Bob, il fatto è-così, gli dirai- che ho paura. Sono codarda come nessuno mai. Il bello è che scrivo di gente coraggiosa ed io col coraggio non ci ho niente da dividere perché altrimenti non starei qui a parlare col tuo fantasma da strapazzo prezzato quattro dollari e ottanta. Ed ora sei vecchio Bob, sei un vecchio ubriaco di vita che, ormai, di vita non capisce più un accidente. Come fai a vivere non so. Mi fai schifo.
Ma che c'entra Bob Dylan in tutto questo non lo sai. Non è lui, non è il mondo, ma che t'importa. Continuerai ad urlare contro di loro fino a quando la tua voce non ti sarà ritornata nel cervello come un'eco, come lo schiocco secco di una frusta. E pensare che lo fai solo per non rimanere da sola con malinconici ricordi. Hai iniziato a correre per amore ed hai accelerato per la rabbia. Forse che volevi vomitare quel cuore malandato? Ma non lo sai che i cuori non sono come le tonsille? Però quelle sei lettere ti fanno paura perché ti ricordano quelle altre nove che ti hanno ridotta così male. Quelle nove lettere scritte a sbalzi sul diario, come un singhiozzo continuo e inconstante... le prime manifestazioni di battito convulso, i primi dubbi, il primo niente e le corse in treno al caldo quando ti giuravi "stavolta non ci casco"... e quei ritorni con la fronte appoggiata al finestrino quando ti ripetevi "stavolta cambia tutto". Che poi è vero quando dicono che il tempo passa veramente, ma se il livido va via, la cicatrice resta e di dare libertà al sentimento, proprio non ne hai voglia. Quindi finisci pure il tuo the verde più lacrime salate e non ti chiedere se stai facendo bene o se bene è la parola giusta. Però nessuno è mai pronto per davvero. Spranga il tuo cuore finché penserai che così starà meglio, anche se magari qualche volta ci starà un po' stretto.

Diciassette per la vita- ovvero, la patetica storia di Novembro

di Cristina Taliento




(The Rose, Salvador Dali 1958)

Vorrei fermare il tempo. Proprio adesso. Vorrei prolungare questo mio respiro e farmelo bastare per tutta la vita. Le mani, le labbra, la pelle vorrei che non cambiassero. Mute. Immobili. Perfette.

Quello era il pomeriggio di sole più caldo dell’estate 1918, i quarantaquattro gradi più famosi della storia di Freno. La signora Caviglie Ullalà –come la chiamava Cesco- attraversava la strada ansimando con le buste della spesa e con le sue caviglie più grosse d’Italia. Sotto gli alberi si erano radunati gruppi di ragazzini in canottiera che si giocavano ai dadi Leopardi e Pascoli.
“ Riconosci che Pascoli è un poco di buono” diceva uno.
“No” rispondeva un altro ragazzino con gli occhiali.
“Riconoscilo”
“No”
“Riconoscilo”
“No. No.”
Il ragazzino con gli occhiali iniziò a correre e due altri lo inseguirono, ma vedendo che era lontano lo lasciarono stare e iniziarono a ridere schernendolo.
Giuseppina la Svampita fumava una sigaretta sul suo balcone di gerani.
Io me ne stavo seduto sul secondo gradino di casa e pensavo che non volevo invecchiare. Lo pensavo intensamente come se avessi dovuto succhiare una caramella col cervello.

Vorrei rubare la bellezza del mio volto e nasconderla affinché nessuno possa portarmela via. Vorrei avere per sempre quest’attimo. Vorrei vivere e morire con l’aspetto di un diciasettenne.

Ricordo che la figlia del sindaco, Maria Sole , saltava la corda. Quel suono della corda che batteva sull’asfalto non potrò dimenticarlo perché fu allora che accadde davvero e lo sentii fin dall’inizio che il mio desiderio era stato esaudito.

Mi ritrovai dieci anni dopo senza essere cambiato e nei dieci anni successivi a quei dieci, la mia pelle era quella di un diciasettenne.

Me ne andai da Freno, dal secondo gradino di casa, dai quarantadue gradi all'ombra. Via, dovevo scappare dal tempo in un luogo che non avesse tempo.


La mia valigia, queste scarpe rotte, le dite strette intorno al polso. Non posso invecchiare. Morirò da diciassettenne con il sorriso angelico. E se hai desiderato e ciò che volevi ti è stato concesso, vivi, danza, corri.


Trovai un lavoro alle corse dei cavalli. Dieci lire a settimana, ma di specchi ne avevo comprati tanti. E mentre mi specchiavo vidi nel riflesso una ragazza di bellezza maggiore alla mia.

Non sapevo il suo nome, ma la sposai con la valigia in mano. Fu il più grande amore della mia vita. Eppure lei invecchiava. La sua pelle divenne rugosa e si chiedeva perché la mia, invece, rimaneva liscia e diafana.

"Sembri un diciasettenne" mi disse un giorno.

"Per tutta la vita".


E lei sedeva sulla poltrona accanto alla finestra aperta ed il vento muoveva i suoi capelli bianchi ed i merletti del vestito. La invidiai come quell'estate in cui avevo invidiato me stesso.


Mi accorsi di colpo che volevo invecchiare. Volevo vedermi vecchio e poi morire. E quella perfezione dei diciassette anni mi sembrava una trappola sanguinosa. Provai paura.

Sette anni dopo, la mia sposa morì. Ne restarono i suoi cappelli e gli orecchini di perla. Piansi.

Tornai a Freno che erano tutti morti: mia madre, Cesco, il sindaco, i ragazzini, Pascoli, Leopardi. Non mi guardavo più allo specchio.


Narciso, piangi la tua fine

chè le tue lacrime son di fiele.

La natura difficile è a contrastar

e lo capirai se, a tentativo fallito,

mesto ci riproverai.


Ed il patetico Novembro, come io mi chiamo, arrivò nella sua perfezione finale. Sciocco, meschino, imbroglione.


E giacciono i suoi diciassette anni

sul fardello di una vita intera.


23/08/10

Sulla morte, sulla vita

di Cristina Taliento

La morte di una persona cara è una cosa strana. E' come quando stai per addormentarti ed hai quasi abbandonato le percezioni del tuo corpo. All'improvviso, ti sale per la schiena un brivido o uno scossone che assomiglia ad una specie di salto nel vuoto. Come una vertigine nel buio. Come una sensazione di cadere e non atterrare. Ma la cosa davvero curiosa è che, quando accade, ti stringi al cuscino o al lenzuolo, come per tenerti aggrappato con tutte le forze a qualcosa che non ti abbandonerà. Credo che, dopotutto, sia lo stesso istinto di attaccamento alla vita.
Ogni volta che mi trovavo ad un funerale, ogni volta che mi trovavo a ripetere la triste parola- condoglianze- ed incrociavo le lacrime e il dolore, ogni volta che il vento danzava nei capelli e nelle giacche dei conoscenti vestiti a nero, sentivo che niente mi poteva spiegare la vita più della morte. In quegli addii ho sempre visto la vita, l'ho vista in faccia, con tutta la sua austerità.
E non era tanto perché io restavo e continuavo a vivere, ma perché nella morte trovavo il vero senso della vita. Quello più puro.
E mentre camminavo con la mani intrecciate, seguendo il lento corteo funebre, mi capitava di pensare all'uomo spogliato da tutte le sue certezze, da tutti i suoi numerevoli orgogli. Mi distaccavo dall'uomo e lo commiseravo, ma non lo facevo per gioco o per rimprovero. Vedevo in quelle sagome piegate sulla bara, in quella fragilità umana, tutta la leggerezza della realtà. E quasi piangevo nel vedere l'uomo che affogava nel dubbio e nella rassegnazione al dubbio.
Pensavo ai treni, anche. Mi ricordavo che, quando ero piccola, ne avevo paura perché andavano in posti che non potevo immaginare. Crescendo, quei treni iniziavano a piacermi. Mi piaceva che qualcosa si allontanasse, mentre qualcos'altro restava. Pensavo di saltarci su. Guardavo un ragazzo e una ragazza dirsi addio e il mondo mi sembrava grande, infinito. La separazione di due corpi comporta l'origine di due mete. Se il ragazzo restava in stazione, l'altra partiva, si allontanava verso un nuovo posto. Verso nuovi spazi, nuove storie.
E quel pensiero lo rinnegavo e poi ritornavo a cercarlo, ma finiva che me ne dimenticavo. Più passava del tempo dall'ultimo funerale e meno sentivo di possedere il senso della vita.

22/08/10

Suonatore jazz

di Cristina Taliento


Un bambino mi piange silenzioso sulla mano,
ora lo calmo, penso, questo piccolo umano.
Hai mai sentito parlare di quel suonatore
che metteva nel jazz rabbia, fortuna ed amore?
Sai, lui era forte e me lo sarei sposato
beh... se fossi nata, per esempio, in un altro passato.
Oh si, è morto, mi dispiace veramente
ma tutti muoiono, buon Dio, non puoi farci niente!
Il fatto è che lui, qualcosa, l'ha lasciata
e nel ricordo ti accorgi che nessuna fatica è sprecata.
E lui, amico mio, di fatiche ne ha fatte parecchie
considerato che non aveva nulla fuorché il sound nelle orecchie.
Beh si, hai ragione a dire che basta e avanza
ma per vivere doveva pur affittare qualche stanza!
No, scusa, non ti avevo detto che se n'era andato
dalla sua vecchia vita e dal suo destino sbarrato.
Lui, bambino, mica si è messo a piangere come te,
lui ha detto; "Basta! Me ne vado a Saint Tropez".
No, scherzo, lì non c'è andato dopo prima,
ma mi serviva un nome per fare la rima!
Se n'è andato a New York, a dire la verità
senza sapere l'inglese, la formalità.
Però il fiato nella tromba lo sapeva mettere
e nei polmoni aveva quella voglia che non ti fa smettere.
Suonava agli angoli delle strade e nei vicoli scuri
in mezzo alla birra, ai soldi sporchi, alle pistole, ai duri.
"Che posto di merda" lo so che lo stai pensando
e lo puoi dire se vuoi, piccolo, non ti sto giudicando.
Ma nei posti schifosi, lo devi sapere,
si nasconde gente che nei titoli ostenta il suo potere.
E per quello squarcio di strada passava in quell'istante
il proprietario di un locale dalla reputazione importante.
"Salta su, ragazzo! Accidenti, hai talento
ti farò diventare un gran bel pezzo di portento".
E così fece la sua fortuna certa
sia il proprietario che la sua scoperta.
Eppure, bambino, ascolta adesso che ti sto per dire
perchè, non si sa mai, ti potrebbe servire:
mai sottovalutare il cuore di un artista
che sia scrittore, attore, poeta o musicista.
Tutti pensavano: "Eccolo, ora è bello e sistemato",
ma non sapevano che lui non si sentiva tanto fortunato.
Era la celebrità, il sogno musicale e compagnia bella,
ma il successo gli sembrava una cella.
Tutti quegli applausi e fischi lo facevano assomigliare
ad una scimmia del circo che non sa su chi pisciare.
Dai, figliolo, non sgranare gli occhi se dico le parolacce
tanto non c'è più indignazione sulle facce.
Dicevo, lui il successo non lo voleva
e mollò tutto sapendo esattamente cosa faceva.
Si prese la sua tromba d'ottone e addio città
e che la mia musica mi regali felicità!
Me lo immagino allontanarsi su un treno a vapore
senza traccia di scrupolo, rimorso e timore.
Okay, okay, se me lo chiedi, aveva anche una moneta
con cui faceva testa o croce o nuova meta.
Ma ti giuro, comunque, che questa storia è vera
e che mai, mai, mi sarei sognata di rifilartene una poco sincera.
Ora vai a giocare, birbaccia lacrimante
asciugati gli occhi e, accidenti, sparisci all'istante.

Spine di rose appassite e galassie stellari di neve

di Cristina Taliento


Il dottorino dagli occhi viola tamburellava le nocche sulla scrivania. Tum tum tum….
“La pianti- ho detto mentre tossivo- la pianti, per favore”
Lui non smetteva. Mi guardava sopra gli occhiali dalla montatura spessa. I suoi occhi erano viola, accidenti.
Mi girai a guardare fuori dalla finestra. Il gatto bianco del preside Schienadritta si era arrampicato sopra un castagno. Si, l’avevo capito: quello era un quartiere di persone con la schiena dritta e dal parlare idiota che portavano i loro maledetti gatti bianchi a spasso e, quando questi salivano sugli alberi, rimanevano a fissarli con quello stupidissimo sguardo di disapprovazione che sfoderavano tutte le volte in cui le cose non andavano nel loro dannato modo perfetto.
“Perché non ti decidi a parlare con me?” mi chiese allora.
Mi sono avvicinato alla scrivania col sopracciglio alzato. Io e il mio mio fottuto sopracciglio.
“Sveglia alle sette, pastiglie, Parlatene con Frank il Grigio, ho scritto un po’ di robaccia sul quadernetto che mi ha regalato Ambra… poi, pranzo, pastiglie… sigaretta…avanti, che vuole sapere?”
Occhi Viola ha sbuffato col naso: pvfffff.
“Sei triste?”
Lo odiavo. Lo odiavo. Lo odiavo. Dentro di me pensavo che sì, stare tutta la vita su una sedia a rotelle a tagliarsi le unghie è davvero da urlo. Pensavo che al diavolo i sogni, se non potevo avere nemmeno gli incubi. E poi, che gioia del cavolo stare tutto il giorno a sdrammatizzare e scrivere, riempirsi la testa di ridicoli melodrammi e ripetersi in continuazione: “Tu non sei normale, figlio mio. All’apparenza potresti sembrarlo, ma non lo sei perché il tuo cervello è malato e se ti lasciano solo rischi di suicidarti e non ti accorgi che lo stai facendo finchè non arriva qualcuno a ricordartelo”. E avevo paura di me, di quel lato di me che non sono riuscito mai ad accarezzare.
“Non più” gli ho risposto mentre mi accendevo un'altra sigaretta.
“Che mi dici dei tuoi racconti? Ambra mi ha dato…”
Fanculo!” ho urlato. All’improvviso tutto mi è sembrato schifoso. Il mondo come un enorme discarica a cielo aperto dove non finivano di arrivare rifiuti su rifiuti.
“Calmati Stefano, è solo un modo per capire…”
Fanculo a tutti quanti! Non mi chiamo Stefano!” ansimavo.
Occhi Viola si è alzato dalla sua sedia di pelle da settecentocinquanta euro.
“Mi lasci! Al diavolo, al diavolo, voi, tutti quanti!”.
Mi aveva fermato le braccia e mi puntava i suoi dannati occhi viola in quelli miei che sembravano impauriti e ribelli. Come dovevano essere quelli di un maledetto cane randagio.
Brasco, vuoi che ti chiami così, no? Volevo che parlassimo dei tuoi racconti. Non lo dirò a nessuno, se è questo che vuoi”. Occhi Viola mi teneva immobile. Era forte, quell’idiota, oppure io ero troppo magro. In entrambi i fottuti casi, non mi muovevo. Respiravo come un bue.
“Come ha potuto? Io non vado a curiosare tra le carte di casa sua!”
“Questo è il mio lavoro! Capire cosa diavolo c’è nella tua testa, è il mio lavoro!”
Nossignore, non mi calmavo. Non ci riuscivo.
“Lei è uno psicoanalista del cazzo o quello che è! Non me ne frega. A lei non importa un bel niente se io sto bene o sto male. A lei basta vivere in questo quartiere di gente imbellettata dei miei stivali”. E mentre vomitavo queste parole, piangevo. Lui mi teneva fermo.
Brasco, forse è davvero così, ma io voglio conoscerti. Quei racconti hanno cancellato tutto quello che mi sembrava certezza sul tuo conto. Forse mi sto sbagliando, ma se c’è una possibilità che tu possa guarire io devo accertarmi che non sia solo una vana speranza”.
“IO NON VOGLIO GUARIRE! NON VOGLIO DIVENTARE COME VOI ALTRI!” ho gridato con tutto il fiato che avevo in gola.
Occhi Viola ha mollato la presa. Gli ho sorriso. Un sorriso storto.

20/08/10

II. Note di filo spinato e spine di rose appassite

di Cristina Taliento

“E dimmi, Brasco- mi ha detto il Dottore dagli occhi viola- come ti senti ad essere diverso?”
Ho sbadigliato e poi ho schioccato la lingua. Ho deglutito e mi sono toccato la punta del naso con l’indice.
“Diverso da cosa?” ho detto. Occhi Viola mi ha guardato per un attimo e poi ha abbassato lo sguardo sulla sua cartelletta.
Il fatto è che mi viene da ridere tutte le volte che qualcuno se ne esce con questa storia del diverso.
Non lo so, chi ha mai sentito di uno che non è diverso?
“ Dagli altri, per esempio. Diverso dagli altri” mi ha risposto Occhi Viola sbattendo le palpebre con le mani intrecciate sulla pancia.
“Non lo so, chi ha mai sentito di uno che non è diverso?”
Ho chiesto una sigaretta ed Occhi Viola me l’ha data come chi vuole qualcosa in cambio.
“Grazie, dottorino” ho detto mentre armeggiava con l’accendino a pochi centimetri dal mio naso.
Mi sono messo a spingere la sedia a rotelle per la stanza con la sigaretta tra i denti e guardavo i ritratti sulle pareti. Occhi Viola si è messo a scrivere rassegnato sul suo computer e mentre ricordavo sentivo il rumore dei tasti che facevano tac tic tac tac tic tac tatatatatac.

Quelle pareti, tutti quegli studi medici, quei ritratti, quei volti da gran signori, io li continuavo a vedere da parecchi anni ormai. La prima volta mi erano sembrati giganteschi. Come delle specie di mostri alati della coscienza che ti guardano dentro e ti ammazzano all’istante. Avevo paura di quei ritratti. Avevo paura delle aspirine e di tutte quegli aghi che mi infilzavano nelle vene quando non stavo calmo e davo scossoni a chi mi immobilizzava. Una volta, a sette anni, mi sono detto, mi ci abituerò. Non l’ho fatto.

19/08/10

I. Clavicembali di zucchero filato e note di filo spinato

di Cristina Taliento

Mi faccio chiamare Brasco Puro e giuro su chi volete che non voglio commuovervi. Accidenti, no. Sono nato nel 1998. Ho ventiquattro anni. Per il resto, me la cavo. Il posto dove abito non sta fermo neanche a chiederglielo. Quando io gli grido “EHIIIII, NON GIRARE, POSTO!” non mi sente. Continua a capovolgersi ed io mi metto a piangere con le mani sugli occhi. Poi arriva Ambra e dice piantala. Ed io la pianto, in qualche modo.
Stando ad Ambra e alla mamma dovrei stare calmo per tutto il tempo. Il fatto è che non si può stare calmi tutto il tempo. Neanche a trasformarsi in una poltrona. Io, per esempio, con la poltrona nera ci ho parlato una volta. Non ve lo consiglio: le poltrone sono delle scorbutiche imbecilli.
Ho chiesto: “Poltrona, c’è posto per me?”
E lei mi ha risposto: “Signore, come cazzo faccio a sapere chi è lei, chi sono io e chi sono gli altri?”.
Mi è venuto un colpo. Ho tenuto gli occhi sgranati per un’ora forse ed Ambra dava la colpa alle medicine che, secondo lei, fanno solo danno e mi rendono ancora più scemo. Non è vero, ha detto la Zianna mentre asciugava le forchette. Non è vero, ha detto Quel Grandissimo Figlio, mentre entrava nella stanza con le scarpe bagnate dalla pioggia. Ho sbadigliato.
Quel Grandissimo Figlio ha un sorriso storto. Più storto di uno stuzzicadenti spezzato. Ogni volta che viene a trovarmi mi tira una specie di schiaffo dietro la nuca e lo fa sempre con quel suo sorriso storto. Mi chiedo come potrei raddrizzarglielo. Comunque, non rimane per molto tempo, il Grandissimo. Di solito, resta qualche minuto e poi se ne va e quando si chiude la porta alle spalle sento papà che borbotta: “Quel grandissimo figlio…”
“Osvaldo!!!” grida mamma ogni volta. E non so perché lo faccia. Forse il suo vero nome è Quel Grandissimo Figlio Osvaldo, ma Osvaldo è il nome di mio padre e… no, infatti, non significa niente. Mamma si mette in mezzo sempre, anche nelle frasi degli altri. Perciò in certi casi faccio finta di non sentirla ed è per questo che io, quello lì, lo continuo a chiamare soltanto Quel Grandissimo Figlio e basta. La cosa strana del Grandissimo Figlio è che anche lui ha una figlia, ma non è proprio grandissima. Quasi grande, ma non grandissima, ecco. Fatto sta che non dice mai una parola quando mi vede. In genere la gente mi saluta e poi si passa subito una mano tra i capelli oppure mi fa l’occhiolino. Io non ci riesco proprio a farlo l’occhiolino. Comunque, lei, Sara, non dice niente. E’ nata nel 2002 e c’ha vent’anni. Lo so perché, il giorno del suo compleanno, hanno sparato i fuochi d’artificio e nel cielo è comparso un gigantesco 20. Io battevo le mani dalla sedia a rotelle ed Ambra era meravigliata che non stessi piangendo per tutto quel rumore. Non piangevo perché in certi momenti mi isolo e non sento niente. Mi succede quando guardo qualcosa intensamente e di distogliere lo sguardo proprio non mi riesce. Ambra, poi, se n’è accorta che guardavo Sara. Allora si è messa dietro la sedia a rotelle e mi ha spinto fino a casa senza dire una parola. Io guardavo l’asfalto che mi scorreva veloce sotto il sedere e per la prima volta mi sono vergognato. Non so perché, ma mi sono vergognato. Mi ero abituato a vedere mia cugina Giovanna quando si vergognava di prendere le caramelle dal cassetto della Zianna. Piegava la testa d’un lato e si fissava le scarpette verniciate. Quelle volte io battevo le mani e dicevo “Vai, vai”. Ma lei non andava a prenderle. Niente. Non capivo. Poi sì, di capire, ho capito. Perché il fatto è che noi siamo soggetti alla vergogna. Secondo me c’è una specie di Cimitero delle cose perdute, che nel profondo del profondo sappiamo che non ci apparterranno mai, nemmeno a miagolare come un gatto. E non importa quanto le vorremmo. Chiacchiere. Non le possiamo avere e ci vergogniamo. Sapevo che Sara era nel Cimitero delle cose perdute. Perciò mi vergognavo.

13/08/10

Il Colloquio

di Cristina Taliento

Mi capitava di sedermi alla scrivania con timidezza e, impugnata la penna, volevo incollare fantasia e ragione sulla carta, come succedeva ai moscerini che rimanevano spiaccicati sul parabrezza. Non facevano nemmeno rumore.
Non mi ricordo quando ha avuto inizio il Colloquio, ma penso che sia stato in uno di quei giorni in cui il Mondo si sedeva sopra la mia gola e giocava a saltellarci sopra. Ho creduto giusto non dire a nessuno del Mondo e di come mi prendesse in giro, ma in silenzio ho iniziato a scrivere e notavo che se il Colloquio andava avanti, il Mondo piano piano la smetteva di infastidirmi.
E quando pensavo alla scrittura mi veniva in mente l'immagine di una donna che cullava il pianto di un bambino e per farlo smettere gli diceva "toh il ciuccio, ecco, sta' zitto" e si calmavano i singhiozzi e si calmavano le grida. Io sentivo di assomigliare a questo bambino con il suo ciuccio inzuccherato. La scrittura, comunque, credevo che fosse il mio ciuccio inzuccherato.
Certi giorni potevo lasciare che le persone aprissero le loro bocche all'infinito tanto non le stavo a sentire. Pensavo alla mia scrivania ed ai moscerini. E se qualcuno mi gridava dietro che ero un imbecille io continuavo a camminare e usavo la faccenda per intagliarci una storia che aveva come protagonista una giraffa alternativa che voleva diventare a tutti costi un imbecille.
Altri giorni, invece, mi mettevo in discussione. Mi chiedevo come e quando diventare seria, serissima di colpo, senza neanche una fantasticheria di passaggio. Ma accadeva che se mi chiedevano di giocare a poker, un gioco serio, per esempio, io, invece di concentrarmi, immaginavo di costruire con le carte grandi castelli e mi domandavo quanto una persona sarebbe dovuta essere delicata per vivere in un castello fatto di carte.
Venivano, poi, certi giorni strani che temevo. Erano i giorni in cui non scrivevo per la paura o per il silenzio che mi nasceva dalle orecchie ed arrivava al cuore. Me ne andavo a sedermi sugli alberi e guardavo le formiche. La loro piccolezza era contagiosa e con le formiche io mi restringevo. E con le formiche i miei pensieri si vergognavano a venir fuori e si dicevano "Noi non siam pensieri, noi siam formichine piccoline che un sol mignolo puo' schiacciar". E le mie giornate, magari, seguivano il loro corso come li andava, ma quel che rimaneva erano solo alberi, formiche e silenzio. Ma il Colloquio, se pur debole, continuava nelle sue contraddizioni ed incertezze. Quando arrivava una riflessione alla dogana della mia mente era come se all'improvviso mi fossi vestita da gendarme a cavallo e, senza abbassare il sopracciglio, le studiavo e le facevo mille domande. "Stupidaggini!"dicevo. E tutte quelle riflessioni non le congedavo, ma le arrestavo e le facevo rimanere in cella per tre o quattro giorni. Loro non erano perfette, loro accusavano il Mondo senza avere le giuste prove. "Calunnie! Pensieri schierati, ecco cosa sono! Al rogo!". Ma non le bruciavo, le riflessioni. Dopo quei giorni di carcere le mandavo al diavolo e ritornavo sugli alberi.

06/08/10

La Renault 4 blu oltremare

di Cristina Taliento

A mio nonno
La Renault 4 del nonno non era per niente blu e basta. Avevo appena imparato dalle piccole scritte sui pastelli Giotto che quella tonalità di blu si chiamava Oltremare ed era da scemi pisciasotto confonderla con quella Cobalto o addirittura con il Turchese. In quegli anni mi bastava individuare il colore preciso delle cose e se quelle cose avevano un senso o no, non me ne fregava molto.
Così, ogni volta che passavo davanti alla Renault del nonno mi dicevo a bassa voce: "Oltremare". E poi proseguivo a testa bassa con la testa impegnata in chissà quali diavolerie.
Quel nome, però- oltremare- mi sembrava più grosso di me e di tutto il mondo. Mi faceva pensare a quell'acqua che vedi un poco prima della linea dell'orizzonte. Qualcosa che non afferrerai mai, nemmeno ad avere un braccio di gomma allungabile come Rubber. Accidenti, aveva l'oltremare nelle vene, quell' ubriacona di una Renault! Quando il nonno mi faceva salire sul sedile davanti rimanevo immobile a sentire l'odore che c'era dentro. Mi dicevo che non l'avrei mai dimenticato, poteva anche cascare il mondo. Era un misto di concime e sali e foglie e terra. Anche il nonno aveva quell'odore. Si, era lo stesso. Era l'odore del nonno. Forse è per questo che quando è morto facevo certe scene di pianto e rotolamenti sul tappeto di casa per convincere i miei a non demolire la vecchia Renault. Loro dicevano che non valeva un accidente benedetto e che erano solo spese inutili e che ormai serviva solo alla polvere. Io tra le lacrime ed i singhiozzi dicevo "non è vero" e poi una volta mio zio mi ha preso in braccio e di piangere non ne potevo più e allora a mezza voce ho detto "ma odora del nonno. Vi prego, lasciatela". Accade che nessuno sta mai a sentire una bambinetta di sette anni. Ed un giorno tornai da scuola e sotto l'albero non c'era niente di abbastanza oltremare. Se l'erano portata via. Mi ricordo che mi sedetti sulla terra battuta, proprio dove stava parcheggiata la vecchia Renault e guardai in alto, tra la chioma del pero selvatico. Mi aspettavo di piangere ancora o di sbattere i pugni per terra come facevano in televisione. Invece restai seduta a gambe incrociate al posto della vecchia Renault e non mi volevo alzare più e se le gambe, dopo un po', mi formicolavano io le stendevo sempre da seduta e, poi, le incrociavo di nuovo. Restai tutto il pomeriggio così e con la coda dell'occhio vedevo mia madre che si affacciava dalla finestra e mi fissava. E vedevo anche che mio padre prendeva un braccio a mia madre e la portava dentro come per lasciarmi sola. Rientrai soltanto quando il sole tramontò e nel cielo esplose quel blu oltremare che riuscì a consolarmi perchè era bello ed infinito allo stesso tempo.

04/08/10

Tribute to Woody

"Odio le canzoni che ti fanno sentire che non vali niente. Odio le canzoni che ti fanno pensare che sei nato per perdere. Destinato a perdere. Che non servi a niente e a nessuno. Non servi a niente. Perché sei troppo vecchio o troppo giovane o troppo grasso o troppo magro o troppo brutto o troppo questo o troppo quello…Canzoni che ti buttano giù o canzoni che ti mettono in ridicolo a causa della vita dura o del duro viaggiare che hai fatto. Io sono qui per combattere questo genere di canzoni fino al mio ultimo soffio d'aria ed alla mia ultima goccia di sangue. Sono qui per cantare canzoni che ti proveranno che questo è il tuo mondo e anche se ti ha colpito duro e ti ha messo al tappeto per una dozzina di riprese, non importa in che modo ti ha calpestato o schiacciato, di qualunque colore, di qualunque misura sei, in qualunque modo sei fatto, io sono qui per cantare canzoni che ti diano orgoglio di te stesso e per il tuo lavoro. E le canzoni che canto sono fatte per lo più da ogni genere di persone proprio come te".

03/08/10

La Sartoria delle Identità- Seconda Parte



di Cristina Taliento





Sugli scaffali della Sartoria delle Identità ci sono stoffe, gomitoli di lana e pesanti forbici rosse. Lauro non sa ancora bene cosa ci faccia al centro di quella stanza sconosciuta. Si comporta come se non fosse padrone del suo corpo, anzi, fa come se nemmeno lo conoscesse.
"Sa, non è un caso che lei abbia trovato questa bottega" dice il Baffo.
Lauro deglutisce e sbatte le palpebre. "Che vuole dire?" pensa.
Poi dice: "Non sto cercando niente di preciso, a dire il vero".
Il Baffo lo guarda attentamente per alcuni secondi.
"Sciocchezze! Nessuno avrebbe trovato questo negozio se non avesse avuto il tempo di guardare dalle vetrine. Tutti cercano qualcosa e lei, caro mio, cerca un'Identità!- dice, ridacchiando- Beh sembrerebbe che sia arrivato nel posto giusto! Lei crede?"
Lauro è confuso. Inizia a tossire con un pugno premuto sulle labbra sottili.
"Non capisco... Voi vendete, per caso, identità?"
Il Baffo tira dentro la pancia, alza il mento e con una voce, che sembra registrata, dice:
"La Sartoria delle Identità, il posto dove le bussole vengono riparate, dove ogni marinaio sperduto può scambiare la sua identità malandata con un'Identità smagliante, scoppiettante, originale oppure di seconda e terza mano. "
"Se-e-conda e te-e-erza ma-a-ano?" chiede Lauro balbettando.
"Al diavolo, ragazzo! Può averla di quarta mano se vuole, ma non lo dica troppo in giro! Allora che ne pensa?"
Lauro guarda meglio gli scaffali e si aspetta di vedere fantasmi immateriali in vendita, ma nota solo stoffa. Allora capisce che quello è solo una sartoria che, in qualche modo, aiuta a creare uno stile al cliente. Si riprende.
"Ho capito tutto. Voi create lo stile, non è vero? L' identità sta nello stile. Ho capito!" dice esultante.
Il Baffo scoppia in una risata.
"Macchè! Lei è la persona più imbecille che abbia mai varcato la porta del mio negozio."
Lauro non si offende, ma vorrebbe capire di più.
"Ci sono tante stoffe..."
"Mai fermarsi all'apparenza! Non le l'ha mai detto nessuno? Perdiana, pensavo che fosse ormai un concetto ben saldo!"
"Ehm...ehm... allora mi mostri la verità" dice Lauro togliendo le mani dalle tasche del giubbotto di pelle nera.
"Ollalà!" esulta il Baffo e con un gesto maestoso del braccio indica una piccola porta del negozio.
Lauro lo segue e, quando la porta viene aperta, lui rimane senza fiato. C'è una ragazza con un foulard nei capelli biondi dietro una scrivania. Gli occhi di Lauro diventano due cuori che battono pazzamente e niente lo può distogliere da quella visione. Il Baffo inizia a guardarlo preoccupato.
"Avanti! Mi dica che ne pensa delle mie creazioni! Queste sono Identità di primo grado, mi capisce? Non troverà Identità così splendide nemmeno se girasse per tutta l'Italia. "
Lauro non si è accorto che la stanzetta è piena di manichini su cui sono state adagiate delle personalità trasparenti. Lui guarda quella figurina che legge delle carte con sguardo dolce.
"Anna, per favore- dice Baffo alla ragazza- aiutami a scegliere qualcosa per questo tale! Pare che sia svenuto in piedi!"
Anna alza gli occhi dal foglio ed anche lei rimane colpita da quel ragazzo dai capelli spettinati. Si alza e gli va incontro. Solo loro due possono sentire suoni di fisarmonica che volano sui loro sentimenti. Baffo all'inizio non capisce cosa stia accadendo, ma poi scrolla le spalle e se ne va. "Ragazzini" pensa.
Anna è a due passi da lui e gli sorride.
"Cercavate un'identità?" chiede
"Io... I-Io n-non lo so. Se si cerca quello che non si ha... allora si, la cerco" dice piano, con quel tamburo battente nelle costole.
"Cosa non avete?"
"Mi manca il carattere e lo spirito"
"Dite sul serio?" Anna ha uno strano sorriso sulle labbra.
"A me p-p-pare c-c-così"
"Qui abbiamo Identità coraggiose, vivaci, tenaci, grandiose, eroiche. Quale modello volete provare, allora?

Lauro per un attimo guarda quei manichini e poi torna a guardare lei, quegli occhi brillanti così ubricati di anima.
"Non lo so, è questo il punto. Sono polvere"
"Bene, allora formulo la domanda in modo diverso: Come vorreste apparire ai miei occhi?"
Anna ha capito che Lauro si è innamorato di lei. Così lei di lui. Non gli lascia il tempo di rispondere e dice: "Lo sai che la gente non si innamora della polvere?"