30/12/10

Decadenza e collasso di una stella

di Cristina Taliento


Erano le cinque del pomeriggio quando il signor Arnolfini- le braccia incrociate sul petto, i baffi scuri e il cappello in mano- disse:
“Lady Marianna, il mercato cinematografico ha richieste differenti da quello che lei ci può offrire. La Compagnia degli Aranci vuole investire in attrici, come dire, più… giovani.”
Il pendolo sembrò azzittirsi per qualche secondo. Arnolfini continuò:
“E poi lei, Marianna, ci costa troppo. E il problema… ehm ehm… il problema, dicevo, è che la Compagnia non può permettersi di regalare uno stipendio così elevato per un così basso profitto”.
Da lontano si sentì il telefono squillare. Qualcuno rispose. Riattaccò dopo poche risposte.
“Sono stanca-disse allora la stella del cinema, mentre posava gli occhiali sul libro chiuso- adesso vorrei che mi lasciaste sola”. Il signore e la signora Arnolfini, si scambiarono uno sguardo imbarazzato, deglutirono rigidi e presto uscirono dalla stanza. La diva Marianna rimase ferma nel punto in cui aveva parlato, in quella stanza piena di suoi ritratti dipinti da pittori francesi. Quello in alto a destra era di Hyacinthe Arnoux, fondatore dell’ Art de Nerval. Ricordava quando era stato dipinto; era il giorno successivo al debutto di Rose Solitarie. Il suo primo giorno di celebrità, quando i ragazzini iniziarono a collezionare le locandine dei suoi film sotto i divani. Guardò il dipinto per qualche minuto con le labbra strette ed i pugni chiusi, poi chiamò il maggiordomo:
Mohammad, voglio che togli immediatamente ogni quadro dalle pareti di questa stanza” disse con voce gelida.
“Bene. Vuole appenderli nel salone?”
“No.”
“Bene. Che ne faccio, allora?”
“Non lo so”
Il maggiordomo tornò con una scala e iniziò a togliere i quadri dalle pareti, mentre nel posacenere d’avorio bruciavano tutti i mozziconi della sua vita e di quella dei personaggi che aveva interpretato.
“Signora, devo togliere anche questo?” chiese l’uomo indicando il ritratto di Arnoux.
“Non sente?- disse a voce alta Lady Marianna, balzando in piedi e puntandolo con occhi infuocati- ho detto che devono sparire tutti. Bruciali. Falli a pezzi. Sotterrali in un cimitero dentro bare di mogano e poi esci in strada e grida ‘è morta, è morta! Marianna Serafini è morta!’ e se ti chiedono come, tu rispondi di si.”
Poi andò vicino al camino, appoggiò le mani sul freddo ripiano e guardò il fuoco. Iniziò a ridere con la bocca aperta, la testa inclinata. Poi, d’un tratto, si fermò con la rapidità di un maestoso rapace che ha sentito un rumore. Un pensiero, un lampo. Lentamente, andò al centro della stanza, fece quel gesto spontaneo di sistemarsi i capelli e il vestito, raddrizzò il collo e le spalle, si schiarì la voce e immaginò di ritrovarsi ancora sotto le luci abbaglianti del successo, sul tappeto rosso della vittoria, tra i mari di gigli bianchi e margherite che le venivano regalati dai suoi ammiratori.
“E’ curioso- disse con voce imperiosa- ritrovarsi ad essere, per una volta soltanto, la regina del mondo. Ancora sorrido quando vedo le nuove principessine del cinema che salgono sui troni per poi lasciarli dopo qualche mese. Ah! Credono di essere le più belle del reame! Le giovani stelle nascenti! Ma che cosa hanno davvero? Quale ricordo credono di aver lasciato nelle menti di ogni classe sociale, dopo il loro declino? Il nulla! Il remoto, desolato, sconfortato e patetico nulla! Solo io posso dire che cosa significa essere davvero una Stella! Ammirata dai re, applaudita dai cardinali, idolatrata dalle nuove generazioni ed eletta come donna di massima bellezza ed onore! La bellezza… questa parola, questa gioia vana che mi ha seguito, maltrattato, deturpato e ossessionato per una vita. Ma che cos’è la Bellezza, l’Estetica? Io ne ero padrona, ma ahimè non riesco a spiegarne l’essenza. Eppure ho la certezza che essa svanisce. A cosa credete che mi servirà il mio talento d’attrice privo di bellezza se non per recitare in qualche squallido bar della capitale? Dove pensate che sia andata la mia beltà se non nel passato, nei ricordi di chi è già morto? Ora, io vi chiedo di restare zitti e di assistere all’esplosione della stella più luminosa che i vostri occhi abbiano mai visto. Vi chiedo di tacere mentre la stella collasserà, lasciando al suo posto un profondo e desolato buco nero. Quello è ciò che resta. Ma state attenti, io vi dico, state attenti perché nemmeno gli scienziati più acuti sono riusciti a scoprire cosa possa contenere un buco nero, né la forza che esso sprigiona o la memoria di cui si è servito. Addio”

Il maggiordomo, abituato alle prove dell'attrice, non ascoltò il monologo, ma non fece a meno di voltarsi quando udì un fragoroso schianto di vetri e un tonfo proveniente da sotto la finestra.

27/12/10

Il muto

di Cristina Taliento



Iniziai a vedere il muto quando anch’io smisi di parlare. Forse c’era anche prima, però non me ne accorgevo. Lo vedevo soprattutto quando mia madre si lamentava dei miei silenzi o quando i miei amici si stancavano di non ricevere risposte. “Non sei più la stessa di qualche mese fa” mi dicevano ed io alzavo le spalle e me ne tornavo a casa, deviando per il sentiero dei cuccioli di cane, dove c’era un bambino che pensava di essere Superman. Non aveva nemmeno genitori, quel bambino, e voleva che io gli dicessi qualcosa come per esempio “che bel mantello” o “posso insegnarti a volare”, ma, siccome non volevo parlare, imparò a fidarsi di me quando vide che davo da mangiare ai suoi cani.
“Ehi, ehi, ma dove sei stata, me lo dici?” mi gridava mia madre quando mi sedevo a tavola.
“Eh -inventavo io- in Chiesa...” E intanto ridevo dentro per quelle risposte.
Il giorno dopo il digiuno di parole ecco che vedevo il muto alla fermata dell’autobus e se, invece, ritrovavo quella voglia di raccontare storie alla gente, non c’era verso di scorgerlo per giorni di fila.
La sua faccia mi sembrava di averla già vista su qualche periodico o in qualche sogno, non ricordavo. Quello che mi dava fastidio però era non poterlo vedere tutti i giorni, così smisi di parlare definitivamente e presi a marinare la scuola perché le interrogazioni comportavano uno spreco di parole inutile, uno spreco che io non potevo permettermi. Allora, lo vedi spuntare ovunque e non sapevo dire se fossi io a pedinare lui o viceversa. “ Che strano nascere senza una voce” pensavo. Alla fine, mi sedetti accanto a lui, nel parco. Si girò e mi salutò con un sorriso usato e strausato. Tirai fuori dallo zaino una lavagnetta e scrissi “Mi faccia il piacere di congratularmi con lei”. Il muto lesse per un secondo e poi mi strinse la mano, annuendo. Io continuai a scrivere:
“Deve essere proprio bello non avere una voce, lei è fortunatissimo -vidi che aveva letto, cancellai e scrissi di nuovo- Chissà che bello non stancarsi mai della propria voce e di tutti quei bla bla bla maledetti…”.
Scrissi proprio “bla bla bla maledetti”. Allora, il muto mi strappò di mano la lavagnetta e scrisse:
“Perché ti prendi gioco del mio handicap?”. Lessi quella domanda a mi alzai immediatamente dalla panchina e agitai furiosamente il dito indice a due passi dal suo naso come per dire “no, no”.
“Ma lei non ha capito-scrissi- io dico che lei avrà sviluppato una mente diversa da quella dei parlanti perché è stato svincolato per decenni dal dovere della risposta!”. Il muto lesse con attenzione per qualche minuto e aspettai che capisse la mia frase. Poi cancellai e scrissi sopra: “Tutte le volte che lei voleva informazioni si è ingegnato per trovare una risposta da solo, non è vero? Non dipendere dalla parola altrui è geniale”.
Ero in sollucchero. Il muto, annuì, ma poi scrisse: “A volte la voce sonora ti distrae da quella interiore. Tu puoi distrarti, io devo marcire nella mia coscienza”.
Aveva ragione. Continuò:
“Tu stai scappando dalla tua voce interiore”.
Aggrottai le sopracciglia e mi puntai un dito contro per dire “io?”. Lui agitò il capo. Poi si mise le mani in tasca e mi offrì una caramella. Feci segno di no. Poi scrisse, mentre il gessetto faceva strik strik:
“Trova la tua voce interiore e domala”.
E io: “E se io non volessi domarla? Se io avessi deciso di dire tutto o niente?”
“Sei proprio matta, santa ragazza”
“Io non voglio più parlare, punto”
Mi fece una smorfia che mi fece esplodere in una risata. Gli uccelli volarono dagli alberi.
“Capisci che i pensieri sono diversi dalle parole. Ed ora goditi la tua voce e lascia stare me, povero muto“
Io mi alzai e feci per farmi restituire la lavagnetta, ma lui mi bloccò e scrisse:
“Sono i pensieri ad essere più rumorosi, come la tua immaginazione bestia. Altrimenti come avresti fatto a capire che tra tutta quella gente solitaria ero proprio io il muto?”
Il muto se ne andò e quando alzai lo sguardo non c’era più. Me ne andai e capivo di più.

18/12/10

Diapositive e lampadine

di Cristina Taliento


(Pierre-Auguste Renoir)


Noi non vivevamo di ricordi. Avevamo dicissette anni ed un pacco di sigarette, ma io non fumavo perchè non avevo abbastanza garbo nel farlo. Fin da quando ero piccola e vedevo la mia splendida zia fumare, pensavo che tenere in mano una sigaretta era un po' come suonare una chitarra o, meglio ancora, un violino; le spalle, le dita, i polsi dovevano avere una certo stile del movimento, un' eleganza sfacciata, spensierata. Quella che io, tutto sommato, non credevo di avere. Per lo più, mi appoggiavo al muro con le mani in tasca e le scarpe consumate e partivo con l'intenzione di osservare chi fumava, ma poi lo sguardo inchiodava un particolare e rimanevo immobile, come chi ha perso ogni genere di maschera o difesa. Erano le sere invernali del sabato pomeriggio, quando stava per fare buio e nelle strade c'era quell'odore di cielo che non riuscivo a identificare. Da lontano si sentiva abbaiare dal canile e le voci dei miei amici sembravano accordate in un'unica sinfonia. Possedevamo la Bellezza nelle tasche dei nostri giubbotti, negli audaci sorrisi e in quella forza felina di correre nella campagna anche di notte, per sfida o per scommessa. I nostri passi affiatati facevano tu tum tu tum tu tum e le nostre sciarpe ci volavano dietro le spalle come i capelli lunghi e la malinconia. Poi finivamo a ridere come chi ha trovato il senso della vita e ci sentivamo fratelli bastardi, unico cuore, anima sola. Una volta Giulia ha impilato le mani di tutti quanti ed ha detto: "Giuriamo che mai ci tradiremo, che mai ci perderemo, che mai invecchieremo". Io ho tossito, mi sono portata indietro i capelli con una mano e Luca mi ha guardata per un attimo, ma poi ha detto subito "lo giuro". E io ho detto "lo giuro". E Giacomo, Ettore, Irene hanno detto "lo giuro", così Giulia ha sorriso e si è accesa una sigaretta e l'ha fatta girare in cerchio come se fosse stata una canna. Faceva freddo e stavamo tremando ed io volevo che qualcuno all'improvviso ci avesse scattato una foto, in onore della nostra Bellezza eterna. Ma noi non volevamo vivere di ricordi. Così quell'istante lo lasciammo libero, come quelle falene che ci volavano intorno e che non c'era verso di chiudere in un pugno.

08/12/10

Brindo

di Cristina Taliento

Brindo. A questo vuoto dei giorni che furono e che mai saranno. A questa assurda convinzione di morire a 27 anni, che mi spinge a fare di meglio. A questo libro di Voltaire capovolto sul pavimento insieme ai calzini e alle scarpe abbandonate della vita incerta. A queste immagini sulle pareti che in giorni passati io avevo eletto miei personali, santissimi, idoli, peccatori e che adesso non sono che carta, bucata, fallita, nel buio scomposta come pioggia gelata di fine dicembre. A questa domanda, “tu dove stai?”, che non accetta risposte da preti, né cartomanti, amanti, romantici consolatori, bugiarde carezze sulle spalle. A questo cielo sotto cui camminiamo senza parlare quasi come spaventati dal suono della nostre voci che non ci confermano la nostra esistenza, ma ci rendono schiavi della nostra percezione superficiale come se un suono a noi familiare possa rendere certo ed indiscutibile, nonché privo di dubbio, questo respirare, questo cuore che esce e poi ritorna, questi capelli che crescono, queste cellule che seccano come cespugli di rose. Eppure c’è questo grido sommesso che mi supplica di non avere fretta, presupponendo in qualche modo una mia capacità ad invertire le stagioni della ragione, come se io, piccola me, potessi porre un limite alla mia confusione, come se io, debole me, potessi offrire qualcosa di più di un sorriso, come se io, impacciata me, potessi tendere la mano tremante all’infinito. Ma la tensione dei miei muscoli si accorcia e si annienta davanti ad una prospettiva di eterna continuità come se non fossi stata concepita per comprendere il vero ed allora cado, nuda di quelle pretese, e affondo gli occhi nelle ginocchia ed ho il vago sentore che anche la ricerca della verità non sia che un falso pretesto, un gioco bizzarro, una scusa, un modo curioso per vivere e tacere pensando che pur esiste una ragione, che pur esiste il senso di tutto. Le nostre paure scacciate dalle ambizioni, i nostri dubbi spazzati dalle vanità, le nostre domande soffocate dalla quotidianità. Questo vivere e vivere e correre e saltare e salire sui treni e pisciare e dormire, masticare, tossire, lenire, curare, idratare, sta schiacciando il mio più grande e vitale “non so”, la cui scomparsa, in verità, potrebbe allettarmi le giornate, tuttavia velerebbe per sempre i miei occhi da quel tessuto grezzo che è la rassegnazione, la sconfitta e la malinconia di un giorno di maggio passato al lago a pescare.

20/11/10

Volavamo sopra la nebbia*

di Cristina Taliento

Erano tempi difficili. J.D. Salinger era morto. Jose Saràmago era morto. Dicevano che ci fosse la crisi ed era vero, ma era una crisi che lasciava la gola arida di valori e di moralità. L’Italia, a dire il vero, mi sembrava come un vecchio carrozzone che arrancava nella nebbia di fine Novembre. Nessuno si chiedeva dove stesse andando, né se i suoi conducenti avessero bevuto o fatto tardi la sera. C’erano i telegiornali ed anche le radio, ma quelle parlavano d’altro ed era poca la gente che protestava dicendo: “ehi voi, parlate della nebbia! Non vedete com’è fitta?”. Così quelli continuavano a parlare d’altro. C’erano un sacco di persone che guardavano la televisione con un sorriso assente e con la testa piegata di lato e si facevano accarezzare il cervello da gialli mediatici o da bistecche da discoteca sedute sui troni degli studios. Ricordo l’ immondezza prepotente che si infiltrava nelle case e nelle redazioni dei giornali e poi tutto quel sudiciume si riversava nelle nostre vite, nelle menti di tutti, degli interessati e i non interessati. E il carrozzone errava, errava… e qualche volta, sbandava e si faceva un gran baccano, ma poi quasi tutti ritornavano a dormire e calava la nebbia, ritornava il silenzio. Ogni tanto, mi capitava di vedere dei vecchi nella nebbia; quei vecchi leggendari che giravano con la lanterna alzata e con lo sguardo miope. Alcuni li consideravano come dei santoni che parlavano senza capire quello che dicevano, ma, in realtà, soffrivano per la nebbia e nei loro borbottii di parole e tosse, nominavano concetti dimenticati come “cultura”, “informazione”. La cultura era potere, questo gridavano mentre qualcuno annuiva. La cultura ti faceva tornare indietro, ti spingeva a voltarti con un energico mezzo giro sui tacchi e ti lasciava dire “aspetta”. Le parole non avrebbero perso il loro valore iniziale perché esse sarebbero sopravvissute e poi ci avrebbero rischiarato la via. Sentivo signori imbellettati che non erano d’accordo e sbattevano i loro pugni sul tavolo, ribattendo che la cultura era un tremendo impostore capace di farti vedere tutto nero. Il mondo, in verità, era nero, anche i vecchi saggi lo pensavano e nemmeno io, nessuno poteva negarlo. Ma poi i saggi rispondevano che tutto era nero se non si aveva voglia di difendere il colore. Dicevano che solo esercitando la propria cultura con rispetto e con onore, si meritava di stare al gioco perché non si poteva negare che nel mondo si doveva combattere per vivere e che non ci sarebbero state mai abbastanza parole, giornali o voci che avrebbero dato voce alle urla d’ingiustizia così soggette ad essere soffocate sotto cuscini d’indifferenza. Lentamente capimmo che ogni cosa poteva essere discussa, ma ciò che annebbiava e feriva era l’indifferenza al dialogo, quel disinteresse malato sotto il quale dormivamo come cullati dal lento succedersi delle note di un carillon.


* Questo racconto è stato pubblicato sul giornalino scolastico Virgilio Taims, che ne mantiene i diritti.

06/11/10

La vecchia della finestra

ovvero, i pensieri infantili di una scrittora qualunque

di Cristina Taliento

Erano i giorni del Catechismo, quando stavo imparando ad attraversare le strade da sola, guardando a destra e a sinistra, senza mai riuscire a ricordare quale fosse destra e quale sinistra. Passavo davanti la casa di una vecchia che era affacciata alla finestra e non sapevo dire se filava o, semplicemente, piangeva in silenzio. Mio cugino mi aveva detto che si poteva piangere in silenzio anche stando seduti intorno ad un tavolo superaffollato e si poteva fare in modo che nessuno se ne accorgesse. Questa vecchia mi guardava ogni volta e le volte in cui ricambiavo lo sguardo, mi dispiaceva di essere ancora piccola e lei no. Piano piano andavo al Catechismo e se sbagliavo era colpa mia, e di nessun altro, ma non succedeva mai perché homo faber suae quisque fortunae. Ripeti: homo faber suae quisque fortunae. Brava.
Avevo scritto un racconto intitolato: “Hanno sparato al mio amico Jay”. Il nonno chiedeva al suo cane perché io fossi tanto pessimista ed un'altra parola strana che finiva con –errima-. Allora il cane guardava prima me e poi il nonno ed io zitta, ma pensavo “che vuoi”. Poi correvo al pero selvatico e intrecciavo braccialetti con fili di lana e mettevo il filo bianco sopra quello rosa e poi di nuovo bianco sul rosa, ma poi non riuscivo a fare il nodo finale e pensavo alla vecchia affacciata alla finestra. Il giorno di Pasqua andai dalla vecchia e dissi “signora vecchia mi puoi annodare le punte di questo braccialetto?”. E la vecchia tossì forte ed io guardai giù, mentre aspettavo di sentire la sua voce che non arrivava. Le passai il braccialetto dalla finestra e lei lo prese con le sue mani ossute e lucide. Allora io volevo vedere come faceva il nodo e mi aggrappai alla finestra con le punte dei piedi sul marciapiede ed entravo solo con la testa nella sua casa di minestra. Era odore di minestra.
“Puoi fare il nodo strettissimo?” chiesi. “Non tirare la tenda” disse. Liberai il tratto di tenda che tenevo premuto tra le mani e il marmo della finestra. Aveva le unghie lunghe e muoveva le dita lentamente. Faceva per prendere il filo, ma quello sfuggiva. “Non fa niente” dissi e lei me lo restituì.
Il nonno giocava con il cane e le mie scarpe di vernice marrone non stavano ferme, allora andai da mio cugino che giocava a pallone contro un muro. Mi tolsi le scarpe ed andai in mezzo alle due sedie perché quella era la porta e dovevo parare.
“Prendila”.
“Si, si, tira.”
Poi tirava.
“Non così fortAhia.”
“Che ti sei fatto?”
“ Niente.”
“Come niente, fammi vedere. Sta sanguinando il naso”
Guardavo il soffitto e vedevo il cielo, con le stelle e gli angeli ed i santi e Maria con Giuseppe, e tanti vecchi che suonavano e c’era pure la vecchia della finestra.
“Non te l’ho rotto io”
Ahia, non mi toccare… sei proprio uno scemo di merda”
“Guarda in alto… don Alfredo deve sapere che usi queste parole”
Ma non piangevo perché o ti scende il sangue dal naso o ti scendono le lacrime. Due sono le cose.

31/10/10

Ritratto di un musico assorto

di Cristina Taliento (Suonatore di Liuto, Caravaggio; cm 94x119; olio su tela; San Pietroburgo, Museo dell'Eremitage)
Cupo e assorto fu il musicista e potei dir di lui chi fu senz'altro pallido si non fosse che potria corrère il rischio d'imitar il Montale Eugenio che con cotal parole descrisse il meriggio. Allor mi limiterò ad attribuirgli cupezza e pensieri; mai dunquè mi azzarderò ad arrecare pallido ardore alla suo viso d'angelico demonio. Or vi dirò di lui non già la verità, nè la menzogna. Dirò soltanto quello ch'io vidi e pensai sanza esercitare il pregiudizio o men che mai il diniego, giacchè fui colpita solamente dal suo sguardo basso e da come le sue dita solletico facean a quel mansueto liuto.

Vedete, io son persona che non cerca l'avventura, ma sa allettarsi con quel che trova in giro, dietro un angolo o un ulivo. Così io vidi, facendo dell'esempio, questo giovine che suonava il suo instrumento e seppur il desiderio debole non fosse, non seguitai a porgere domande.

Costui più che seduto, stava adagiato su lo sedile di un treno e io stavo di fronte ad egli con l'aria imbronciata di chi attende l'arrivo di panorami familiari.

Egli teneva appoggiato il liuto sulla sua gamba più alzata e con la mano opposta stringea una stilografica con la qual deliziava lo foglio della sua giovenil scrittura. Or io pensai ch'egli iscrivesse note o musicate parol e mi chiesi chi fosse l'amata alla qual quegli destinava l'amor suo. Avvenne ch'io divenni sempre più curiosa e per questo feci per alzarmi e inzuppai volontariamente l'occhio negli affari di quel musico troppo assorto. "Amai trite parole che non uno osava. M'incantò la rima fiore/amore, la più antica difficile del mondo."

24/10/10

Volevamo

di Cristina Taliento

Volevamo spostare il vento con le nostre braccia
o un aquilone col pensiero
e guardavamo i gatti che miagolavano sulle macerie
e non avevamo cura delle sirene lontane
o del vago sentire per non tornare.
Volevamo violare le leggi del vuoto
e strappare le pagine della Filosofia
o stringere tra i denti i mozziconi del futuro
e masticarli fino a farli diventare polvere
e poi ingoiarli come belve troppo sazie e troppo morte.
Volevamo scrivere per giorni interi
o dare pezzi di pane alle anatre
o rincorrere i treni fino a sera
e urlare come uomini che hanno perso i figli
e farlo per rompere il bicchiere del silenzio
o per la rabbia di non riuscire a capire.

Maledetto capire, maledetto volare.
Volare... volevamo volare;
capire è morire.

19/10/10

Discorso del matto Genda agli allievi

di Cristina Taliento

Il matto Genda si mise il cappello rosa di sua madre e, in piedi, sulla scrivania, sembrava un re. I bambini lo guardavano dal basso e si sentirono orgogliosi di essere lì in quel momento.
E il matto Genda, sbloccata la voce, così disse:
"Lasciate che le mosche volino, ragazzi. Lasciate che esse si riproducano e che svolazzino sotto i lampadari. Non preoccupatevi delle mosche, dei loro atterraggi, dei loro voli, poichè esse sanno dove andare, anche se voi credete di no. Lasciate che vostra madre uccida le mosche senza cercare di ostacolarla e se lo fate, lasciate che vi rimproveri dato che è nel suo ruolo rimproverare un figlio che impedisce l'uccisione delle mosche.
Lasciate che vostra madre vi giudichi pazzi, stupidi, viziati. Lasciate che vi enumeri le inutilità delle mosche. Lasciate che la vostra bocca si apra per lo stupore mentre sentirete quelle parole ciniche e fuori luogo. Lasciate che le vostre gambe corrano via, sotto le pioggia, tremando di rabbia e lasciate anche, ragazzi, che vi venga il raffreddore del secolo. Lasciate da parte l'orgoglio e permettete a vostra madre di misurarvi la febbre, senza opporre resistenza poichè il termometro è di vetro e se fate gesti inconsueti, potreste farlo cadere a terra, rompendolo. Lasciate che lei vi enumeri i punti deboli del vostro ragionamento e lasciate che parli senza risponderle, chiederle scusa. Lasciate che se ne vada con il suo rumore lontano di tacchi e lasciate che la vostra testa pensi alle mosche e a tutto quello in cui avete creduto e non vi è stato concesso. Lasciate crescere ogni vostra convinzione, ma soprattutto, lasciate ad ogni cosa di esistere poichè voi non sapete cosa deve essere e cosa no. Non avete la minima idea, nè le prove per contrastare con certezza il volo di una mosca, nè le ragioni di vostra madre, nè le vostre credenze. Voi, dovete credere fermamente che ogni cosa sia liberamente. Toglietevi dalle palle, allievi. Almeno voi, smettetela di voler trattenere il fiume sbarrandolo con le vostre mani."
Gli allievi avevano capito e in silenzio uscirono con gli occhi bassi e pieni di vergogna.

15/10/10

1993

di Cristina Taliento


Pioveva ed io nascevo. Si, quel giorno Dio la buttava giù alla grande e non era perchè "il cielo piangeva visto che aveva perso la sua stella migliore". Tutte quelle frasettine da diario mi hanno sempre dato il voltastomaco, che schifo. Voglio dire, che posso sapere io del cielo, della terra e di tutto il resto? Abbastanza niente, grazie. E poi era una pioggia assassina che stava mandando tutti in collera e poco ci è mancato che qualche parente non facesse un bell'incidente per venire a vedermi in ospedale. Ma non è successo un bel niente, a parte il fatto che erano tutti bagnati come bestie nel fango e sai che scocciatura per le infermiere del reparto pulire le impronte sudicie di tutti quei curiosi. Fatto stà che io all'epoca non mi facevo problemi di questo tipo: mica stavo a pensare alle infermiere o ai parenti e, per dire la verità, manco al fatto che fossi nata. All'epoca, mo ci vuole, non me ne fregava niente. Però che bello, io dico, stare con le gambe e le braccia all'aria con un sorriso ebete sulla faccia e non pensare a niente, solo vedere e manco quello alla fine, perchè una volta ho sentito mia zia che gridava nell'orecchio di mio nonno che i neonati non ci vedono poi così bene. "Che hai detto?" ha detto il nonno quasi gridando. "Che i neonati non ci vedono bene". "Cooosa?". Che fortuna che ho avuto allora a non vedere, nè sentire, nè parlare. Completamente innefficiente, che emozione. Voglio dire, è come quando entri a far parte di un gruppo dove i componenti sono in continua lotta fra loro e si accusano a vicenda, si picchiano a vicenda e questo e quello... e tu, sei nuova, immune da quelle lotte, nessuno ti può dire un accidente di niente perchè sei nuova. Poi passano i giorni, i mesi, e tu inizi a far parte del gruppo senza accorgertene e ne diventi consapevole quando qualcuno un bel giorno punta il dito contro di te e dice: "sei stato tu". Allora inizia il gioco, anzi era già iniziato e non te ne accorgevi, ma da quel momento, puoi starne certo, tu fai proprio parte del sistema, del quartier generale degli imbroglioni e non ci scappi, non ci scappi manco a fingerti matto. Però devo dire che a tornarci indietro sarei nata comunque. Quella pioggia trucida-fessi non me la sarei persa per un bel fico secco.

10/10/10

I vecchi

di Cristina Taliento

Quel pomeriggio d’autunno eravamo tutta la comitiva al completo: un gruppo di idioti che si rubavano le scarpe a vicenda e facevano finta di gettarle nel mare. Ricordo un sacco di sorrisi bianchi e tanta luce che entrava nei nostri capelli ribelli. Non dovevi battere il cinque quando Lisa ti piazzava la mano davanti la faccia perché poi succedeva che mentre alzavi la tua, lei ritirava la sua e faceva come per lisciarsi i capelli e poi si metteva a correre, gridando che stavolta te l’aveva fatta. Allora io, ogni volta che mi gridava “ Ehi batti cinque, Cris”, gli alzavo il dito medio con un’aria da innocente e lei rideva un sacco, ridevano tutti. E le nostre risate, i nostri strilli, i nostri “lasciami, mettimi giù”, brillavano così tanto sulle creste argentate delle onde da sembrare rumori lontani portati dal mare, come le alghe o il petrolio. C’erano poi dei vecchi pescatori che ci guardavano tristi dalla loro barchetta di assi rossastri e quello con con il berretto di lana sembrava fischiare un motivetto che mi ricordava “Let it be”, ma nessuno di noi ci aveva fatto caso, nessuno di noi aveva notato i pescatori e quella melodia tranne io ed era come se all’improvviso le sagome dei miei amici si fossero dissolte tra la sabbia alzata dal vento e dalla luce. Guardavo i pescatori, le loro rughe rassegnate, le loro braccia piene di ematomi e macchie e mi venne da piangere. Sentivo la loro vita sulle mia braccia e mi volevo sedere, ma non ci riuscivo.

I vecchi mi fanno piangere perché quando incontri i loro occhi puoi scorgere la soluzione della vita, come quella di un gioco e via dicendo. I vecchi non fanno lunghi discorsi, ma poi dicono una frase che ti toglie il fiato e capisci che tutte quelle inutili parole con cui cercavi di intrattenerli non valevano nulla. I vecchi si alzano presto la mattina e fanno le loro cose in silenzio senza disturbare nessuno e poi passano un sacco di mesi sotto una veranda e tengono la testa dritta e puoi capire che stanno pensando dal colore dei loro occhi che da grigio diventa verde o azzurro e non è il riflesso del cielo, non sono gli alberi, ma sono i ricordi o i sogni oppure un misto di ricordi e sogni che non hanno passato né futuro. I vecchi soffrono per il ticchettare delle lancette, per l’indifferenza con cui vengono trattati, ma non ci riescono a farne una colpa a nessuno perché trovare il colpevole è cosa superata per loro.

09/10/10

Va bene

di Cristina Taliento
Camminavo per le strade con gli occhi bassi e guardavo, sentivo, tossivo, non dicevo.
I palazzi sventolavano bandiere che il vento attorcigliava e nessuno le sbrogliava, perchè nessuno le vedeva e il corvo sul cornicione tornava indietro sui suoi passi, ma non per gioco, non per noia. "Stai lontana dai corvi". Va bene.
Un ragazzo e una ragazza guardano il tramonto con la mano sporca di gelato sciolto e mica parlano, mica ridono. Un bambino gioca a palla e un fratello non ce l'ha, ma ha la palla e dice che gli basta. Poi arriva un vecchio scorbutico e gliela buca con un ago.
"Non si fa rumore in strada!". Va bene.
Una donna di cinquant'anni vende la fede d'oro e si fa stirare la faccia con punture e ferri da stiro.
Al cane piacevano le sue rughe, ma le riviste dicevano che non era cosa conveniente invecchiare e loro dicevano così e allora se dicevano così...
"Tocca la mia pelle e senti com' è liscia". Va bene.
Uno scrittore inventa frasi per stupire e poi le incarta in foglietti colorati e sembrano tante caramelle con molto zucchero saporito. Poi quello scrittore gira un film e poi fa l'attore e la sua penna si chiede se egli voglia ancora altra popolarità.
"L'amore è come la morte: non sai mai quando ti colpirà." Va bene.
Una famiglia composta di padre, madre, tre figli, nonno e zio, lascia raffreddare il brodo mentre il tg lancia notizie come fossero semini che germogliano nella pioggia e tutti parlano del delitto e tutti vogliono indagare perchè mai nessuno aveva proposto loro un gioco così interessante e così vero.
"Secondo me lo zio sta coprendo qualcuno". Va bene.

05/10/10

I Disillusi et Signorie loro

di Cristina Taliento

Avvertenza: E' bene che il lettore venga informato che le seguenti riflessioni NON sono state scritte in uno stato di ubriachezza. L'autrice ostenta sobrietà. Il seguente lavoro, dunque, è frutto di una scrupolosa ricerca stilistica e deve essere letto con attenzione, interesse e massima serietà. Grazie.




Avvertenza 2: Diffidate dalle avvertenze scritte da soggetti poco affidabili




[…]Al lato del Bar della Grangente fu la Baracca dei Disillusi, un’ accozzaglia di polvere et cemento intra la qual si riunivan coloro che o per il troppo pensar o per la troppa noia, eran diventati disillusi di fama et libera scelta. Si facean chiamar Disillusi poiché l’illusione, a dire il vero, non solo sapean di che trattasse, ma ci avevan vorticato dentro fin quando non si eran trovati un muro ritto negli occhi et un silenzio scassato da un lontano abbaiare. Grande effetto mi fecer quando li conobbi et mai più, io credo, vederli potrò, sebbene lo mondo sì grandi pianure possiede. Eppur voi mi direte con mano sbattente che facil’è incontrare un disilluso di questi tempi ed io con maggior forza la mano mia sbatterò, comprovando il fatto che, di disillusi veri e puri, pochi esemplari vi sono et, continuando la lettura, da soli vi accorgerete di quant’eran bugiardi et falsi quelli di vostra conoscenza al confronto di quelli che studiai io con la più profonda ammirazione. C’eran dunque tre Disillusi di età giusta che camminavan sulla strada et loro andatura non era veloce particolarmente, ma neppur lenta o irriverente. Loro andavan come se la loro vita sospesa fosse tra l’asfalto nero et il marciapiede, sopra lo qual tuttavia quelli non salivan siccome lor pensier’ era tale da scansar gli artefici del comune et della Signoria loro. Saper dovete che un disilluso mai amicizia stringe, ma se qualcuno gli dona un pomodoro, lui ringrazia come se ricevuto avesse l’intero cesto di arance et melanzane. Adesso io non so se vantaggioso sia, astenersi dal votar un certo partito, ma per certo posso dirvi che un disilluso la sua idea, nel vero, se la tiene in gola sicuro che un giorno fallirà anche quella. Ancora, un disilluso riconoscerlo potete se mai lo vedete mentre parla con un dottore dotto e un po’ arcignotto. Nel suo viso si forma un trio di rughe, tra le due guancie e la fronte, che la domanda in voi farà nascer spontanea se il disilluso è scemo o è la verità a non esser sovrana. Un disilluso mal di pancia sente quando gli si parla di sogni et scorciatoie. Egli fa il lavoro duro non tanto per l’avvenire, ma poiché nel lavoro duro lui trova la certezza et il risultato matematico del proprio sudore giacchè, egli pensa, che sol nella fatica sta la risposta. […]

25/09/10

La storia semplice del Ragazzo Grifone

e della ragazza che se ne innamorò


di Cristina Taliento





(Jeune fille se coiffant ses cheveux, Pierre-Auguste Renoir, 1894-Lehman Collection, New York )



Quella domenica mattina dell'anno 1993, in via Auguste Renoir, mi accorsi di essere cambiata. Stringevo nei denti un bastoncino di liquirizia e mi arrotolavo le maniche della camicia maschile che era appartenuta a mio padre o a mio nonno, non ricordavo. Una cascata di luce inondava la poltrona di velluto ed i miei capelli castani si illuminarono di riflessi aranciati. Ogni cosa mi apparve diversa, come se all'improvviso mi avessero liberato gli occhi da una più profonda miopia. Lasciai che le mani mi cadessero abbandonate sulle ginocchia e, appoggiata la testa allo schienale, iniziai a risalire il fiume di quel cambiamento e, quando trovai la sorgente, chiusi gli occhi per la meraviglia e li riaprii soltanto per liberare alcune lacrime che erano rimaste incagliate tra le ciglia e i ricordi.



Quella mattina, in quella stanza, io non ritrovavo più il mio vecchio essere e sapevo che, anche se l'avessi cercato sotto ogni letto della casa, avrei visto Amore. Nessuno, in quei quattordici anni di vita, mi aveva mai parlato di quel sentimento tanto forte e mi piaceva immaginare che la mia fanciullezza si era smarrita nel vento dell'innamoramento. Perciò cercavo di ricordarmi di Argo, il Ragazzo Grifone, perchè volevo gettare la mia àncora nel fiume della vita in modo da ricordarmi per sempre che fu il suo amore a farmi cambiare e non gli altri, non la gente.



Argo aveva sedici anni ed era il principe dei rapaci. Non c'era poiana, falco o sparviero che non rispondesse al suo richiamo. La prima volta che lo vidi nel bosco era circondato da una moltitudine di ali battenti e lui cantava una canzone antica che io non conoscevo. Pensai subito ad un sogno poichè non mi era mai capitato di vedere nella realtà tanta perfezione, ma rimasi ferma su quella terra che tante volte mi aveva deluso e che, invece, questa volta mi incantava. Argo mi venne incontro con le braccia occuppate dai rapaci e non indietreggiai, anche se avevo paura. Nei suoi occhi vidi la Bellezza e lo smarrimento per lo stare a terra e non nei cieli.
"Un giorno volerò con loro" mi disse ed io capii che stava dicendo la verità. Pensai che se mi avesse chiesto di volare con lui, nel cielo, con un paio d'ali, io non avrei fatto domande e l'avrei seguito, ma prima che potessi annuire arrivò il Grifone, l'uccello che più nell'indole gli assomigliava. Nell'occhio del rapace vidi l'anima di Argo, ma abbassai lo sguardo perchè non potevo sopportare le emozioni che quella perfezione riusciva a scatenare. Fu come se quel pomeriggio io, in piedi, con le mani gelate nelle tasche del cappotto, avessi amato qualcuno con ogni probabilità di fallimento. E in quel momento capii che sapere il suo vero nome, quello di sua madre o del suo paese, non sarebbe servito a nulla. Niente che coinvolgesse la superficilaità del mondo apparteneva a quel legame. Del pomeriggio di sole restò un mozzicone bruciacchiato di tramonto. Il Grifone se ne andò girando lentamente il collo ed io non dissi niente. Poi lo vidi volare incontro al tramonto e nella strada del ritorno guardai il bosco con uno sguardo che, se all'andata, puntava il sentiero, dopo, si perdeva in dettagli che rifrangevano la bellezza del mondo per farne colori, suoni ed alberi.

22/09/10

Un titolo aumenterebbe le aspettative

di Cristina Taliento
Scrivi qualcosa, qualsiasi cosa.

Non c’era niente che potesse consolarmi oltre il violento battere delle mie dita sulla tastiera.
Mia sorella diceva “piantala” oppure ridendo diceva “non ti arrabbiare” quando sentiva che non erano i tasti, ma le ossa, a suonare. Tac Tac Tac. Suono della mia adolescenza. No, non è un vizio, non lo è mai stato. Questo continuo battere è il rumore della vita o di tante altre cose che chissà che bello sarebbe se sapessi spiegare. Anzi no, questo continuo battere non è proprio niente, è un rumore come un altro, come degli spari di pistola, come lo scoppio di una bottiglia di vetro, come il pianto di una prostituta. Questo continuo battere e battere, è soltanto un rumore che non è la vita, che non è niente se non l’infinito, quel fumo sotterraneo che mi brucia dentro e non so sciogliere. Prima ho scritto fosse la vita perché mi sembrava una frase d’effetto; qualcosa che attirasse terribilmente l’attenzione come per dire “La gatta sul tetto che scotta”, qualcosa del genere. La gente ama le frasi d’effetto. Conoscevo un tipo che invece le odiava, che girava gli occhi per interi secondi quando ne sentiva una. Per esempio, prima ho scritto che l’infinito è un fumo sotterraneo. Se gliel’avessi detto, mi avrebbe fermato con una mano impertinente per mormorare qualcosa come: “Non può essere. Non esiste il fumo sotterraneo. Dovresti scavare e poi metterci del fumo.” O chissà, magari mi avrebbe sorpreso rimanendo zitto. Credo si chiamasse Luigi, ma non faceva che ripetere “Chiamatemi Paolo, chiamatemi Paolo…” : chiamatemi Pollo, ecco. Lui veniva alle elementari con me, ma i suoi erano sempre un po’ stizziti per il fatto che non fosse stato mandato alle superiori con 4 o 5 anni d’anticipo. Il povero Pollo, dava una spiegazione a tutto e si puliva gli occhiali con gesti arrabbiati ogni volta che, una spiegazione, non riusciva a darla. Io gli dicevo che era proprio tipo da Università e che mio cugino di vent’anni capiva sicuro meno di lui. Mi piaceva un sacco vedere il povero Pollo che si gonfiava il petto. Forse pensavo che avrebbe fatto un bel chiricchicchì davanti a tutte le maestre ed i genitori. Adesso non so che fine abbia potuto fare il giovane Po. I suoi sedici anni non gli avranno impedito di crescersi un bel paio di baffi. Oppure è rimasto schiacciato dalle sue domande, o meglio, dalle inconcludenti risposte di cui noi uomini disponiamo.
“Rimani un Pollo, un po-po-povero piccolo Po-po-pollo- gli potrei canticchiare ora, con tutta la rabbia infantile che mi sento addosso- “quanta pena mi fai. Op op op, piccoletto, perché piangi? Ti sei accorto che i tuoi non so stanno superando i loro perché?

14/09/10

C'erano adolescenti sotto gli alberi

di Cristina Taliento

a dei ragazzi.



C’erano adolescenti che vedevano le loro braccia diventare più lunghe
E le usavano per scavare tane nei cespugli.
C’erano adolescenti che restavano immobili sulla strada,
con le mani in tasca
con le sciarpe nere e gli occhi bagnati
e volevano sapere, ma non chiedevano.
C’erano adolescenti che gridavano sotto la pioggia e gridavano, gridavano…
E poi tornavano all’ora di cena con le ginocchia bagnate
E mangiavano, mangiavano… senza rispondere al padre.
C’erano adolescenti che prendevano a calci le foglie;
che guardavano le immagini dello schermo senza capire;
che fumavano pezzi di cielo
che lanciavano i mozziconi dal finestrino,
e li raggiungevano saltando dal treno in corsa.
C’erano adolescenti che riuscivano a sopportare l’infinito
E lo accarezzavano con le loro mani impacciate.
C’erano adolescenti che inseguivano l’Amore e l’Ideale
Anche se questi due impostori sfuggivano come ragni sotto i divani.
C’erano adolescenti nelle scuole che guardavano fuori dalla finestra
Che piangevano nei bagni
Che guardavano assenti la cravatta a righe del professore.
E si stancavano di alzare la mano per parlare;
E non parlavano, non parlavano…
C’erano adolescenti negli uffici, nelle case, nei tribunali
Che erano ossessionati dalla Bellezza
E la cercavano nel mondo con l’occhio attento di un rapace,
ma se la trovavano poi si sentivano morire
perché il loro animo era ancora sensibile ed emozionato.
C’erano adolescenti sui tetti la sera
Che volevano diventare gabbiani della notte
Che ululavano alla luna selvaggia
E si contorcevano alla sua pallida luce famelica.

13/09/10

"Gente che non viene" *

di Cristina Taliento


Certa gente, quando si va a presentare, stende il braccio e lascia la mano cadente oppure ne da solo mezza, con le dita chiuse a pala. Tutti sanno che questa gente non viene, quello che non sanno e che a loro, piace così.
La gente che non viene si ingozza al ristorante e, dopo aver finito tutto, chiama il cameriere per lamentarsi della sua insalatina troppo salata.
La gente che non viene fa passare per immensa concessione anche solo una chiamata dal suo cellulare, "ma per favore riattacca subito. Non sia mai che il mio credito diminuisca di 5o centesimi...".
La gente che non viene se compra una maglietta non la usa per evitare di rovinarla e se, malauguratamente, si vede calpestata una scarpa, questa gente, potrebbe offendersi e non venire mai, mai, più. Quindi non calpestate le loro dannate scarpe.
La gente che non viene odia ogni forma di diversità, ogni maledetto particolare che potrebbe minare al tranquillo vivere della loro società immaginaria dove non sono ammessi zingari, neri, omosessuali o "strani tipi oscuri", ovvero gli eccentrici.
La gente che non viene ha l'alta presunzione di sapere esattamente come ragioni. Questa gente crede di leggerti nella mente, di prevenire le tue mosse e, quando magari commetti uno sbaglio, ti salta sopra come un avvoltoio e preferisce dedicare ore di pettegolezzo sui tuoi sbagli, piuttosto di concentrarsi per rimediare ai suoi.
La gente che non viene tende a guardare tutti con diffidenza: "Oddio no! Non mi dirai che vuoi fidarti di quel lavapiatti, sciocchina". Questa gente, ahimè, non viene dalla nascita.
La gente che non viene odia gli intellettuali con i loro "discorsi catastrofisti" ed è convinta che la mafia sia stata resa popolare da film come "La Piovra" o da gente come Saviano.
Non provate a parlare delle vostre idee sul mondo a questa gente, perchè potreste rimanere stupefatti nel vedere che sarete giudicati dei perditempo che non hanno di meglio a cui pensare: "Invece di ciarlare su quei tre deficienti che vogliono salvare le balene, pensa a comprarti dei jeans nuovi... Cioè, non vedi che sono strappati sulle ginocchia?".
La gente che non viene magari non ti sopporta, ma non te lo dirà mai per due ragioni: la prima è perchè non vuole compremettere la sua tranquillità psico fisica e la seconda perchè... perchè non viene, appunto!
Questa gente mente con un sorrisetto oppure è felice quando un ladro viene condannato a morte. Loro, a volte, non sanno contenere la gioia.
* Titolo di una rubrica del programma televisivo Victor Vittoria condotto da Vittoria Cabello su La7

09/09/10

Il Mito di Apollo e Dafne

raccontato da Cristina Taliento


(Giorgio de Chirico, Ettore e Andromaca, pittura metafisica, 1973)

La notte era un ratto grigio che mordeva i polsi entrando nelle vene e risaliva il tubo di sangue fino ad arrivare al cuore. Quando il ratto arrivava al cuore, ogni cosa moriva nel suo intento d’essere e si trasformava secondo una ragione febbrile che ne mutava le forme ed i colori.
Immobile, Apollo, guardava dalla finestra i palazzi assonnati; la sua sagoma scura totalmente preda del ratto e dei suoi morsi. I ricami delle tende intagliavano la luce rossastra del lampione che tinteggiava il tavolino rotondo con le due sigarette e un orologio.
Fuori i gatti miagolavano sulle lattine schiacciate di Coca Cola mentre le falene prendevano a calci la luna e se ne andavano sulle insegne al neon del negozio di fronte. Sugli alberi infestati c’erano pipistrelli che guardavano capovolti la fine di un amore e, abituati a ribaltare quel che vedevano, pensarono di assistere all’inizio. Come uno squalo che avverte il movimento dietro di lui e famelico mostra la bocca demoniaca alla sua preda così Apollo scosso dal suo stesso sussulto si voltò di scatto e, scese le scale di marmo, andò dove il suo pensiero soltanto poteva guidarlo.

Dafne -smalto rosso e unghie corte- aspettava il treno delle 3 e 45. A pochi passi da lei c’era un uomo con una camicia strappata che cantava tip-tip-pa-ri-ra-ra e si teneva il tempo schioccando le dita. Dafne si avvicinò con il rumore irriverente delle sue scarpette di vernice e gli snocciolò qualche centesimo annerito. I topi indugiavano lungo i muri e forse aspettavano che il semaforo diventasse verde un’altra volta ancora.
Santi peccatori confessavano i loro segreti sulle pareti di un motel mentre il proprietario del bar guardava gli ubriaconi che si alzavano dai suoi sgabelli unti e mentre se ne andavano indecisi verso nuovi bicchieri, lui si gettò lo straccio sulla spalla sinistra e pensò che forse stava bene con quella vita e che, ad aver avuto un po’ di fantasia, sarebbe diventato un domatore di leoni.
E la strada correva sotto Apollo il Bell’ immortale e le luci della stazione ronzavano nel buio. Dafne non si era mai voltata dietro, ma questa volta la paura le gridò di scappare e lei rispose girando i bei capelli e le labbra mortali. Vide Apollo e si vide riflessa nei suoi occhi dove bruciavano insieme amore e frenesia. E lì, tra le fiamme di quel riflesso, si sentì prigioniera per sempre di un sentimento che il ratto della notte aveva trasformato in brama smodata. Dafne, allora, salì sul treno e si nascose tra i sedili vuoti, con il capo chino. Apollo fece in tempo a salire e il treno si mosse, poi partì veloce. E nelle luci al neon Dafne piangeva in silenzio e nella sua mente rimbalzavano piccoli cristalli di pensiero che le ricordavano tutte le altre notti in cui lei aveva amato senza amore. Si accorse che mai nella sua vita aveva dato il suo cuore a qualcuno, eppure, un cuore, sentiva di non averlo più comunque e si rispose che forse si era sgretolato a sua insaputa oppure era scomparso come uno scoglio che era diventato sabbia senza che nessun pescatore si fosse poi ricordato che pur lì c’era stato uno scoglio e non soltanto il mare.
Quando Apollo arrivò, sentì il suo odore, ma quel che vide di lei fu una farfalla rossa che si lanciava nel buio dal finestrino aperto del treno in corsa.

01/09/10

Il Dattilografo

di Cristina Taliento




Gennaio, 1963. Ricordo ogni angolo, vicolo e strada di Freno. Ogni sbattimento di ciglia dei passanti, ogni indice puntato nei miei occhi azzurri, ogni filo di cotone attorcigliato dal vento. Ricordo le lunghe sciarpe nere dei ragazzi che si sporgevano sul ponte e poi ricordo quella mano ossuta che mi tirò il maglione da dietro, come per fermarmi da quella nostalgica passeggiata di inizio Novembre. Era la mano del Dattilografo, ma allora non la conoscevo. Mi sembrò vecchio fin dal primo momento, notavo la stanchezza nei suoi pesanti occhi grigi, manifesti di un’ insana voglia di rimanere estraneo alla vita.
“Scappa- mi disse- scappa dal cancro della scrittura. Scappa.”
E ricordo che il mio sorriso era esteso solo d’un lato e gli diedi il braccio perché era zoppo e non aveva il bastone. Non chiesi come, nessun perché e neanche un quando. Mi raccontò la sua storia per motivare la sua preghiera. Io ascoltavo meravigliata e spaventata, ma spaventata non troppo perché già avevo capito quanto comico fosse aver paura delle sfide che si trovano per la strada.

Scappa, figlia mia. Sei giovane, sei giovane… Non ti perdere dietro le parole. Non buttarti via.”
E forse ho guardato in basso oppure verso il fiume, ma quel che ho detto è stato di sicuro:
“Non è vero”. Un sussurro con il quale mi consolavo e mi rispondevo.

Mentre ascoltavo la storia del dattilografo mi saliva un prurito sul cuore come una specie di coinvolgimento e non era tanto perché egli fosse pratico della macchina da scrivere dall’età di sette anni, né che la sapesse adoperare con una velocità straordinaria, ma la ragione del mio stupore in quella storia stava nel potere furibondo che le parole avevano su quelle mani ossute che non smettevo di guardare.

“La scrittura mi rapì” ripeteva sempre queste quattro parole con rassegnazione, debolezza.

Mi disse che in ogni giornata della sua esistenza, in ogni ora, senza limiti di sole o pioggia, lui era rintanato nella sua camera a battere i suoi polpastrelli sulla macchina da scrivere. E già dai tempi dell’adolescenza egli capì che non poteva opporsi al potere delle parole. Così, se aveva una conversazione, doveva andarla a scrivere immediatamente e se le avide fauci della sua mente catturavano una percezione, non c’era ostacolo che potesse impedirgli di inchiodare ogni cosa sui tasti consumati di quella macchina infernale.

“E a cosa serve l’amore ad un povero dattilografo se non a comprendere quello dei suoi personaggi? Lui è schiavo. La sua vita non conta.” disse il dattilografo mentre mi lasciava.

Io lo guardavo allontanarsi e mi chiedevo se il suo lamento fosse giusto o sbagliato.

Mi dicevo che quell’uomo non si era sposato per scrivere, non aveva avuto il tempo per prendere il mare. Mi dicevo che la scrittura si era rubata la vita di quell’uomo. E se, invece, la sua vita fosse stata riempita dalle parole scritte, da quei miscugli irreali d’infinito?

Ed io tuttavia credevo che il Dattilografo fosse un audace vestito da servo, un uomo diviso a metà che fingeva di opporsi alla scrittura per assecondarla completamente.


29/08/10

Scappa scappa, vigliacca

di Cristina Taliento
E se vuoi, questi fogli scritti puoi chiamarli casa oppure puoi farci un aereoplano e spedirlo dritto nel cielo con un movimento fermo e arrabbiato, con quella faccia contrariata che mostri quando hai paura. Che se ne frega il mondo di quando lo mandi al diavolo ed imprechi contro il poster di Dylan che guarda verso di te e si chiede perché. Bob, il fatto è-così, gli dirai- che ho paura. Sono codarda come nessuno mai. Il bello è che scrivo di gente coraggiosa ed io col coraggio non ci ho niente da dividere perché altrimenti non starei qui a parlare col tuo fantasma da strapazzo prezzato quattro dollari e ottanta. Ed ora sei vecchio Bob, sei un vecchio ubriaco di vita che, ormai, di vita non capisce più un accidente. Come fai a vivere non so. Mi fai schifo.
Ma che c'entra Bob Dylan in tutto questo non lo sai. Non è lui, non è il mondo, ma che t'importa. Continuerai ad urlare contro di loro fino a quando la tua voce non ti sarà ritornata nel cervello come un'eco, come lo schiocco secco di una frusta. E pensare che lo fai solo per non rimanere da sola con malinconici ricordi. Hai iniziato a correre per amore ed hai accelerato per la rabbia. Forse che volevi vomitare quel cuore malandato? Ma non lo sai che i cuori non sono come le tonsille? Però quelle sei lettere ti fanno paura perché ti ricordano quelle altre nove che ti hanno ridotta così male. Quelle nove lettere scritte a sbalzi sul diario, come un singhiozzo continuo e inconstante... le prime manifestazioni di battito convulso, i primi dubbi, il primo niente e le corse in treno al caldo quando ti giuravi "stavolta non ci casco"... e quei ritorni con la fronte appoggiata al finestrino quando ti ripetevi "stavolta cambia tutto". Che poi è vero quando dicono che il tempo passa veramente, ma se il livido va via, la cicatrice resta e di dare libertà al sentimento, proprio non ne hai voglia. Quindi finisci pure il tuo the verde più lacrime salate e non ti chiedere se stai facendo bene o se bene è la parola giusta. Però nessuno è mai pronto per davvero. Spranga il tuo cuore finché penserai che così starà meglio, anche se magari qualche volta ci starà un po' stretto.

Diciassette per la vita- ovvero, la patetica storia di Novembro

di Cristina Taliento




(The Rose, Salvador Dali 1958)

Vorrei fermare il tempo. Proprio adesso. Vorrei prolungare questo mio respiro e farmelo bastare per tutta la vita. Le mani, le labbra, la pelle vorrei che non cambiassero. Mute. Immobili. Perfette.

Quello era il pomeriggio di sole più caldo dell’estate 1918, i quarantaquattro gradi più famosi della storia di Freno. La signora Caviglie Ullalà –come la chiamava Cesco- attraversava la strada ansimando con le buste della spesa e con le sue caviglie più grosse d’Italia. Sotto gli alberi si erano radunati gruppi di ragazzini in canottiera che si giocavano ai dadi Leopardi e Pascoli.
“ Riconosci che Pascoli è un poco di buono” diceva uno.
“No” rispondeva un altro ragazzino con gli occhiali.
“Riconoscilo”
“No”
“Riconoscilo”
“No. No.”
Il ragazzino con gli occhiali iniziò a correre e due altri lo inseguirono, ma vedendo che era lontano lo lasciarono stare e iniziarono a ridere schernendolo.
Giuseppina la Svampita fumava una sigaretta sul suo balcone di gerani.
Io me ne stavo seduto sul secondo gradino di casa e pensavo che non volevo invecchiare. Lo pensavo intensamente come se avessi dovuto succhiare una caramella col cervello.

Vorrei rubare la bellezza del mio volto e nasconderla affinché nessuno possa portarmela via. Vorrei avere per sempre quest’attimo. Vorrei vivere e morire con l’aspetto di un diciasettenne.

Ricordo che la figlia del sindaco, Maria Sole , saltava la corda. Quel suono della corda che batteva sull’asfalto non potrò dimenticarlo perché fu allora che accadde davvero e lo sentii fin dall’inizio che il mio desiderio era stato esaudito.

Mi ritrovai dieci anni dopo senza essere cambiato e nei dieci anni successivi a quei dieci, la mia pelle era quella di un diciasettenne.

Me ne andai da Freno, dal secondo gradino di casa, dai quarantadue gradi all'ombra. Via, dovevo scappare dal tempo in un luogo che non avesse tempo.


La mia valigia, queste scarpe rotte, le dite strette intorno al polso. Non posso invecchiare. Morirò da diciassettenne con il sorriso angelico. E se hai desiderato e ciò che volevi ti è stato concesso, vivi, danza, corri.


Trovai un lavoro alle corse dei cavalli. Dieci lire a settimana, ma di specchi ne avevo comprati tanti. E mentre mi specchiavo vidi nel riflesso una ragazza di bellezza maggiore alla mia.

Non sapevo il suo nome, ma la sposai con la valigia in mano. Fu il più grande amore della mia vita. Eppure lei invecchiava. La sua pelle divenne rugosa e si chiedeva perché la mia, invece, rimaneva liscia e diafana.

"Sembri un diciasettenne" mi disse un giorno.

"Per tutta la vita".


E lei sedeva sulla poltrona accanto alla finestra aperta ed il vento muoveva i suoi capelli bianchi ed i merletti del vestito. La invidiai come quell'estate in cui avevo invidiato me stesso.


Mi accorsi di colpo che volevo invecchiare. Volevo vedermi vecchio e poi morire. E quella perfezione dei diciassette anni mi sembrava una trappola sanguinosa. Provai paura.

Sette anni dopo, la mia sposa morì. Ne restarono i suoi cappelli e gli orecchini di perla. Piansi.

Tornai a Freno che erano tutti morti: mia madre, Cesco, il sindaco, i ragazzini, Pascoli, Leopardi. Non mi guardavo più allo specchio.


Narciso, piangi la tua fine

chè le tue lacrime son di fiele.

La natura difficile è a contrastar

e lo capirai se, a tentativo fallito,

mesto ci riproverai.


Ed il patetico Novembro, come io mi chiamo, arrivò nella sua perfezione finale. Sciocco, meschino, imbroglione.


E giacciono i suoi diciassette anni

sul fardello di una vita intera.


23/08/10

Sulla morte, sulla vita

di Cristina Taliento

La morte di una persona cara è una cosa strana. E' come quando stai per addormentarti ed hai quasi abbandonato le percezioni del tuo corpo. All'improvviso, ti sale per la schiena un brivido o uno scossone che assomiglia ad una specie di salto nel vuoto. Come una vertigine nel buio. Come una sensazione di cadere e non atterrare. Ma la cosa davvero curiosa è che, quando accade, ti stringi al cuscino o al lenzuolo, come per tenerti aggrappato con tutte le forze a qualcosa che non ti abbandonerà. Credo che, dopotutto, sia lo stesso istinto di attaccamento alla vita.
Ogni volta che mi trovavo ad un funerale, ogni volta che mi trovavo a ripetere la triste parola- condoglianze- ed incrociavo le lacrime e il dolore, ogni volta che il vento danzava nei capelli e nelle giacche dei conoscenti vestiti a nero, sentivo che niente mi poteva spiegare la vita più della morte. In quegli addii ho sempre visto la vita, l'ho vista in faccia, con tutta la sua austerità.
E non era tanto perché io restavo e continuavo a vivere, ma perché nella morte trovavo il vero senso della vita. Quello più puro.
E mentre camminavo con la mani intrecciate, seguendo il lento corteo funebre, mi capitava di pensare all'uomo spogliato da tutte le sue certezze, da tutti i suoi numerevoli orgogli. Mi distaccavo dall'uomo e lo commiseravo, ma non lo facevo per gioco o per rimprovero. Vedevo in quelle sagome piegate sulla bara, in quella fragilità umana, tutta la leggerezza della realtà. E quasi piangevo nel vedere l'uomo che affogava nel dubbio e nella rassegnazione al dubbio.
Pensavo ai treni, anche. Mi ricordavo che, quando ero piccola, ne avevo paura perché andavano in posti che non potevo immaginare. Crescendo, quei treni iniziavano a piacermi. Mi piaceva che qualcosa si allontanasse, mentre qualcos'altro restava. Pensavo di saltarci su. Guardavo un ragazzo e una ragazza dirsi addio e il mondo mi sembrava grande, infinito. La separazione di due corpi comporta l'origine di due mete. Se il ragazzo restava in stazione, l'altra partiva, si allontanava verso un nuovo posto. Verso nuovi spazi, nuove storie.
E quel pensiero lo rinnegavo e poi ritornavo a cercarlo, ma finiva che me ne dimenticavo. Più passava del tempo dall'ultimo funerale e meno sentivo di possedere il senso della vita.

22/08/10

Suonatore jazz

di Cristina Taliento


Un bambino mi piange silenzioso sulla mano,
ora lo calmo, penso, questo piccolo umano.
Hai mai sentito parlare di quel suonatore
che metteva nel jazz rabbia, fortuna ed amore?
Sai, lui era forte e me lo sarei sposato
beh... se fossi nata, per esempio, in un altro passato.
Oh si, è morto, mi dispiace veramente
ma tutti muoiono, buon Dio, non puoi farci niente!
Il fatto è che lui, qualcosa, l'ha lasciata
e nel ricordo ti accorgi che nessuna fatica è sprecata.
E lui, amico mio, di fatiche ne ha fatte parecchie
considerato che non aveva nulla fuorché il sound nelle orecchie.
Beh si, hai ragione a dire che basta e avanza
ma per vivere doveva pur affittare qualche stanza!
No, scusa, non ti avevo detto che se n'era andato
dalla sua vecchia vita e dal suo destino sbarrato.
Lui, bambino, mica si è messo a piangere come te,
lui ha detto; "Basta! Me ne vado a Saint Tropez".
No, scherzo, lì non c'è andato dopo prima,
ma mi serviva un nome per fare la rima!
Se n'è andato a New York, a dire la verità
senza sapere l'inglese, la formalità.
Però il fiato nella tromba lo sapeva mettere
e nei polmoni aveva quella voglia che non ti fa smettere.
Suonava agli angoli delle strade e nei vicoli scuri
in mezzo alla birra, ai soldi sporchi, alle pistole, ai duri.
"Che posto di merda" lo so che lo stai pensando
e lo puoi dire se vuoi, piccolo, non ti sto giudicando.
Ma nei posti schifosi, lo devi sapere,
si nasconde gente che nei titoli ostenta il suo potere.
E per quello squarcio di strada passava in quell'istante
il proprietario di un locale dalla reputazione importante.
"Salta su, ragazzo! Accidenti, hai talento
ti farò diventare un gran bel pezzo di portento".
E così fece la sua fortuna certa
sia il proprietario che la sua scoperta.
Eppure, bambino, ascolta adesso che ti sto per dire
perchè, non si sa mai, ti potrebbe servire:
mai sottovalutare il cuore di un artista
che sia scrittore, attore, poeta o musicista.
Tutti pensavano: "Eccolo, ora è bello e sistemato",
ma non sapevano che lui non si sentiva tanto fortunato.
Era la celebrità, il sogno musicale e compagnia bella,
ma il successo gli sembrava una cella.
Tutti quegli applausi e fischi lo facevano assomigliare
ad una scimmia del circo che non sa su chi pisciare.
Dai, figliolo, non sgranare gli occhi se dico le parolacce
tanto non c'è più indignazione sulle facce.
Dicevo, lui il successo non lo voleva
e mollò tutto sapendo esattamente cosa faceva.
Si prese la sua tromba d'ottone e addio città
e che la mia musica mi regali felicità!
Me lo immagino allontanarsi su un treno a vapore
senza traccia di scrupolo, rimorso e timore.
Okay, okay, se me lo chiedi, aveva anche una moneta
con cui faceva testa o croce o nuova meta.
Ma ti giuro, comunque, che questa storia è vera
e che mai, mai, mi sarei sognata di rifilartene una poco sincera.
Ora vai a giocare, birbaccia lacrimante
asciugati gli occhi e, accidenti, sparisci all'istante.

Spine di rose appassite e galassie stellari di neve

di Cristina Taliento


Il dottorino dagli occhi viola tamburellava le nocche sulla scrivania. Tum tum tum….
“La pianti- ho detto mentre tossivo- la pianti, per favore”
Lui non smetteva. Mi guardava sopra gli occhiali dalla montatura spessa. I suoi occhi erano viola, accidenti.
Mi girai a guardare fuori dalla finestra. Il gatto bianco del preside Schienadritta si era arrampicato sopra un castagno. Si, l’avevo capito: quello era un quartiere di persone con la schiena dritta e dal parlare idiota che portavano i loro maledetti gatti bianchi a spasso e, quando questi salivano sugli alberi, rimanevano a fissarli con quello stupidissimo sguardo di disapprovazione che sfoderavano tutte le volte in cui le cose non andavano nel loro dannato modo perfetto.
“Perché non ti decidi a parlare con me?” mi chiese allora.
Mi sono avvicinato alla scrivania col sopracciglio alzato. Io e il mio mio fottuto sopracciglio.
“Sveglia alle sette, pastiglie, Parlatene con Frank il Grigio, ho scritto un po’ di robaccia sul quadernetto che mi ha regalato Ambra… poi, pranzo, pastiglie… sigaretta…avanti, che vuole sapere?”
Occhi Viola ha sbuffato col naso: pvfffff.
“Sei triste?”
Lo odiavo. Lo odiavo. Lo odiavo. Dentro di me pensavo che sì, stare tutta la vita su una sedia a rotelle a tagliarsi le unghie è davvero da urlo. Pensavo che al diavolo i sogni, se non potevo avere nemmeno gli incubi. E poi, che gioia del cavolo stare tutto il giorno a sdrammatizzare e scrivere, riempirsi la testa di ridicoli melodrammi e ripetersi in continuazione: “Tu non sei normale, figlio mio. All’apparenza potresti sembrarlo, ma non lo sei perché il tuo cervello è malato e se ti lasciano solo rischi di suicidarti e non ti accorgi che lo stai facendo finchè non arriva qualcuno a ricordartelo”. E avevo paura di me, di quel lato di me che non sono riuscito mai ad accarezzare.
“Non più” gli ho risposto mentre mi accendevo un'altra sigaretta.
“Che mi dici dei tuoi racconti? Ambra mi ha dato…”
Fanculo!” ho urlato. All’improvviso tutto mi è sembrato schifoso. Il mondo come un enorme discarica a cielo aperto dove non finivano di arrivare rifiuti su rifiuti.
“Calmati Stefano, è solo un modo per capire…”
Fanculo a tutti quanti! Non mi chiamo Stefano!” ansimavo.
Occhi Viola si è alzato dalla sua sedia di pelle da settecentocinquanta euro.
“Mi lasci! Al diavolo, al diavolo, voi, tutti quanti!”.
Mi aveva fermato le braccia e mi puntava i suoi dannati occhi viola in quelli miei che sembravano impauriti e ribelli. Come dovevano essere quelli di un maledetto cane randagio.
Brasco, vuoi che ti chiami così, no? Volevo che parlassimo dei tuoi racconti. Non lo dirò a nessuno, se è questo che vuoi”. Occhi Viola mi teneva immobile. Era forte, quell’idiota, oppure io ero troppo magro. In entrambi i fottuti casi, non mi muovevo. Respiravo come un bue.
“Come ha potuto? Io non vado a curiosare tra le carte di casa sua!”
“Questo è il mio lavoro! Capire cosa diavolo c’è nella tua testa, è il mio lavoro!”
Nossignore, non mi calmavo. Non ci riuscivo.
“Lei è uno psicoanalista del cazzo o quello che è! Non me ne frega. A lei non importa un bel niente se io sto bene o sto male. A lei basta vivere in questo quartiere di gente imbellettata dei miei stivali”. E mentre vomitavo queste parole, piangevo. Lui mi teneva fermo.
Brasco, forse è davvero così, ma io voglio conoscerti. Quei racconti hanno cancellato tutto quello che mi sembrava certezza sul tuo conto. Forse mi sto sbagliando, ma se c’è una possibilità che tu possa guarire io devo accertarmi che non sia solo una vana speranza”.
“IO NON VOGLIO GUARIRE! NON VOGLIO DIVENTARE COME VOI ALTRI!” ho gridato con tutto il fiato che avevo in gola.
Occhi Viola ha mollato la presa. Gli ho sorriso. Un sorriso storto.

20/08/10

II. Note di filo spinato e spine di rose appassite

di Cristina Taliento

“E dimmi, Brasco- mi ha detto il Dottore dagli occhi viola- come ti senti ad essere diverso?”
Ho sbadigliato e poi ho schioccato la lingua. Ho deglutito e mi sono toccato la punta del naso con l’indice.
“Diverso da cosa?” ho detto. Occhi Viola mi ha guardato per un attimo e poi ha abbassato lo sguardo sulla sua cartelletta.
Il fatto è che mi viene da ridere tutte le volte che qualcuno se ne esce con questa storia del diverso.
Non lo so, chi ha mai sentito di uno che non è diverso?
“ Dagli altri, per esempio. Diverso dagli altri” mi ha risposto Occhi Viola sbattendo le palpebre con le mani intrecciate sulla pancia.
“Non lo so, chi ha mai sentito di uno che non è diverso?”
Ho chiesto una sigaretta ed Occhi Viola me l’ha data come chi vuole qualcosa in cambio.
“Grazie, dottorino” ho detto mentre armeggiava con l’accendino a pochi centimetri dal mio naso.
Mi sono messo a spingere la sedia a rotelle per la stanza con la sigaretta tra i denti e guardavo i ritratti sulle pareti. Occhi Viola si è messo a scrivere rassegnato sul suo computer e mentre ricordavo sentivo il rumore dei tasti che facevano tac tic tac tac tic tac tatatatatac.

Quelle pareti, tutti quegli studi medici, quei ritratti, quei volti da gran signori, io li continuavo a vedere da parecchi anni ormai. La prima volta mi erano sembrati giganteschi. Come delle specie di mostri alati della coscienza che ti guardano dentro e ti ammazzano all’istante. Avevo paura di quei ritratti. Avevo paura delle aspirine e di tutte quegli aghi che mi infilzavano nelle vene quando non stavo calmo e davo scossoni a chi mi immobilizzava. Una volta, a sette anni, mi sono detto, mi ci abituerò. Non l’ho fatto.

19/08/10

I. Clavicembali di zucchero filato e note di filo spinato

di Cristina Taliento

Mi faccio chiamare Brasco Puro e giuro su chi volete che non voglio commuovervi. Accidenti, no. Sono nato nel 1998. Ho ventiquattro anni. Per il resto, me la cavo. Il posto dove abito non sta fermo neanche a chiederglielo. Quando io gli grido “EHIIIII, NON GIRARE, POSTO!” non mi sente. Continua a capovolgersi ed io mi metto a piangere con le mani sugli occhi. Poi arriva Ambra e dice piantala. Ed io la pianto, in qualche modo.
Stando ad Ambra e alla mamma dovrei stare calmo per tutto il tempo. Il fatto è che non si può stare calmi tutto il tempo. Neanche a trasformarsi in una poltrona. Io, per esempio, con la poltrona nera ci ho parlato una volta. Non ve lo consiglio: le poltrone sono delle scorbutiche imbecilli.
Ho chiesto: “Poltrona, c’è posto per me?”
E lei mi ha risposto: “Signore, come cazzo faccio a sapere chi è lei, chi sono io e chi sono gli altri?”.
Mi è venuto un colpo. Ho tenuto gli occhi sgranati per un’ora forse ed Ambra dava la colpa alle medicine che, secondo lei, fanno solo danno e mi rendono ancora più scemo. Non è vero, ha detto la Zianna mentre asciugava le forchette. Non è vero, ha detto Quel Grandissimo Figlio, mentre entrava nella stanza con le scarpe bagnate dalla pioggia. Ho sbadigliato.
Quel Grandissimo Figlio ha un sorriso storto. Più storto di uno stuzzicadenti spezzato. Ogni volta che viene a trovarmi mi tira una specie di schiaffo dietro la nuca e lo fa sempre con quel suo sorriso storto. Mi chiedo come potrei raddrizzarglielo. Comunque, non rimane per molto tempo, il Grandissimo. Di solito, resta qualche minuto e poi se ne va e quando si chiude la porta alle spalle sento papà che borbotta: “Quel grandissimo figlio…”
“Osvaldo!!!” grida mamma ogni volta. E non so perché lo faccia. Forse il suo vero nome è Quel Grandissimo Figlio Osvaldo, ma Osvaldo è il nome di mio padre e… no, infatti, non significa niente. Mamma si mette in mezzo sempre, anche nelle frasi degli altri. Perciò in certi casi faccio finta di non sentirla ed è per questo che io, quello lì, lo continuo a chiamare soltanto Quel Grandissimo Figlio e basta. La cosa strana del Grandissimo Figlio è che anche lui ha una figlia, ma non è proprio grandissima. Quasi grande, ma non grandissima, ecco. Fatto sta che non dice mai una parola quando mi vede. In genere la gente mi saluta e poi si passa subito una mano tra i capelli oppure mi fa l’occhiolino. Io non ci riesco proprio a farlo l’occhiolino. Comunque, lei, Sara, non dice niente. E’ nata nel 2002 e c’ha vent’anni. Lo so perché, il giorno del suo compleanno, hanno sparato i fuochi d’artificio e nel cielo è comparso un gigantesco 20. Io battevo le mani dalla sedia a rotelle ed Ambra era meravigliata che non stessi piangendo per tutto quel rumore. Non piangevo perché in certi momenti mi isolo e non sento niente. Mi succede quando guardo qualcosa intensamente e di distogliere lo sguardo proprio non mi riesce. Ambra, poi, se n’è accorta che guardavo Sara. Allora si è messa dietro la sedia a rotelle e mi ha spinto fino a casa senza dire una parola. Io guardavo l’asfalto che mi scorreva veloce sotto il sedere e per la prima volta mi sono vergognato. Non so perché, ma mi sono vergognato. Mi ero abituato a vedere mia cugina Giovanna quando si vergognava di prendere le caramelle dal cassetto della Zianna. Piegava la testa d’un lato e si fissava le scarpette verniciate. Quelle volte io battevo le mani e dicevo “Vai, vai”. Ma lei non andava a prenderle. Niente. Non capivo. Poi sì, di capire, ho capito. Perché il fatto è che noi siamo soggetti alla vergogna. Secondo me c’è una specie di Cimitero delle cose perdute, che nel profondo del profondo sappiamo che non ci apparterranno mai, nemmeno a miagolare come un gatto. E non importa quanto le vorremmo. Chiacchiere. Non le possiamo avere e ci vergogniamo. Sapevo che Sara era nel Cimitero delle cose perdute. Perciò mi vergognavo.

13/08/10

Il Colloquio

di Cristina Taliento

Mi capitava di sedermi alla scrivania con timidezza e, impugnata la penna, volevo incollare fantasia e ragione sulla carta, come succedeva ai moscerini che rimanevano spiaccicati sul parabrezza. Non facevano nemmeno rumore.
Non mi ricordo quando ha avuto inizio il Colloquio, ma penso che sia stato in uno di quei giorni in cui il Mondo si sedeva sopra la mia gola e giocava a saltellarci sopra. Ho creduto giusto non dire a nessuno del Mondo e di come mi prendesse in giro, ma in silenzio ho iniziato a scrivere e notavo che se il Colloquio andava avanti, il Mondo piano piano la smetteva di infastidirmi.
E quando pensavo alla scrittura mi veniva in mente l'immagine di una donna che cullava il pianto di un bambino e per farlo smettere gli diceva "toh il ciuccio, ecco, sta' zitto" e si calmavano i singhiozzi e si calmavano le grida. Io sentivo di assomigliare a questo bambino con il suo ciuccio inzuccherato. La scrittura, comunque, credevo che fosse il mio ciuccio inzuccherato.
Certi giorni potevo lasciare che le persone aprissero le loro bocche all'infinito tanto non le stavo a sentire. Pensavo alla mia scrivania ed ai moscerini. E se qualcuno mi gridava dietro che ero un imbecille io continuavo a camminare e usavo la faccenda per intagliarci una storia che aveva come protagonista una giraffa alternativa che voleva diventare a tutti costi un imbecille.
Altri giorni, invece, mi mettevo in discussione. Mi chiedevo come e quando diventare seria, serissima di colpo, senza neanche una fantasticheria di passaggio. Ma accadeva che se mi chiedevano di giocare a poker, un gioco serio, per esempio, io, invece di concentrarmi, immaginavo di costruire con le carte grandi castelli e mi domandavo quanto una persona sarebbe dovuta essere delicata per vivere in un castello fatto di carte.
Venivano, poi, certi giorni strani che temevo. Erano i giorni in cui non scrivevo per la paura o per il silenzio che mi nasceva dalle orecchie ed arrivava al cuore. Me ne andavo a sedermi sugli alberi e guardavo le formiche. La loro piccolezza era contagiosa e con le formiche io mi restringevo. E con le formiche i miei pensieri si vergognavano a venir fuori e si dicevano "Noi non siam pensieri, noi siam formichine piccoline che un sol mignolo puo' schiacciar". E le mie giornate, magari, seguivano il loro corso come li andava, ma quel che rimaneva erano solo alberi, formiche e silenzio. Ma il Colloquio, se pur debole, continuava nelle sue contraddizioni ed incertezze. Quando arrivava una riflessione alla dogana della mia mente era come se all'improvviso mi fossi vestita da gendarme a cavallo e, senza abbassare il sopracciglio, le studiavo e le facevo mille domande. "Stupidaggini!"dicevo. E tutte quelle riflessioni non le congedavo, ma le arrestavo e le facevo rimanere in cella per tre o quattro giorni. Loro non erano perfette, loro accusavano il Mondo senza avere le giuste prove. "Calunnie! Pensieri schierati, ecco cosa sono! Al rogo!". Ma non le bruciavo, le riflessioni. Dopo quei giorni di carcere le mandavo al diavolo e ritornavo sugli alberi.