30/05/09

Cartolina dall'Adriatico

di Cristina Taliento

Quando arrivarono le libellule, il sole stava per annegare nell'Adriatico sotto lo sguardo indifferente di una decina di bagnanti. Gli ultimi raggi ramati schizzavano il dorso delle piccole onde e le libellule volteggiavano sulla leggera spuma dorata che si andava a formare all'inizio della bassa marea. Non avevano paura di volare rasente il mare; le loro ali sfioravano il blu senza chiedere il permesso, ma si vedeva che tra di loro si aspettavano, non volevano che nessuna rimanesse indietro. Sapevano dove stavano andando perchè seguivano sempre la stessa direzione, anche se questa era controvento. Forse si andavano a perdere nella notte, forse sarebbero tornate indietro dopo aver toccato la boa rossa, forse volevano imparare ad imparare o a sbagliare, sbagliando. Tutte insieme occupavano nell'aria il volume di un maestoso cigno bianco, ma il loro riflesso nei miei occhi mi riempiva di uno stupore simile a quello che il brutto anatroccolo provò alla vista di una intera nuvola di cigni selvatici. In quelle libellule c'era tutto quello che cercavo, che, per tanto tempo, stavo cercando sotto il mare e che allora mi parve di scorgere al di sopra delle onde. Si allontanarono morbide sull'acqua e mi ricordai che non si vede bene che con il cuore, l'essenziale è invisibile a gli occhi . L'essenziale è sempre invisibile agli occhi, gli occhi riflettono l'invisibile. "Così me ne andai che ero un poco più saggia con tre soldi di dubbio e tre di coraggio".

29/05/09

Credo

di Cristina Taliento

Credo nel credere a qualcosa, credo in chi mi aiuta a credere a qualcosa... credo che il voler fuggire da un paese di appena 15.ooo abitanti significa voler fuggire da te stesso, e da te stesso non ci scappi nemmeno se sei Eddy Meckx. Credo in Dio, perchè se non credessi in Lui probabilmente non crederei neanche al fatto che io possa respirare. Credo nell'amore, nella vita, più di ogni altra cosa... Credo in un sorriso, in un abbraccio, quando le mie amiche per scherzare mi chiamano con parolacce e io mi giro. Credo nello studio, nella cultura che mi ha permesso tante cose e che mi aiuterà a realizzarne tante altre. Credo in quell'attimo di silenzio prima di parlare. Credo nella determinazione, in ogni singola goccia di sudore, in ogni lacrima, in ogni battito. Credo in quella sala prove e anche in quella maledetta pista di atletica che a volte odio e a volte no. Credo che vivere la vita sia come andare in bicicletta, anzi come io vado in bicicletta: ritmo costante, guardare la strada, ma distrarsi, qualche volta, a guardare un mare di grano. Credo in "batti cinque", nel dare vinta una partita a scacchi e giurare che si è stati onesti. Credo nei temporali, quando il cielo "spacca" e nelle nuvole quando si trasformano in pensieri.
Credo che i fatti degli altri rimarranno sempre i fatti degli altri perchè io non sono nessuno per giudicarli. Credo nel desiderio che si esprime al passaggio di una stella cadente perchè credo in chi sogna, spera. Credo nei cantautori e uno, in particolare, che mi ha insegnato a dare un peso alle parole. Credo nella mia famiglia e credo che lo farò per sempre, anche se "per sempre" è una parola grossa, una specie di ghigliottina... Credo nel futuro, nel presente e nel passato quanto basta, perchè credo anche che sia essenziale non guardarsi mai indietro. Credo in chi disse che commettere degli errori non ci assicura a non farli più, ma ci insegna a rifarli con crescente eleganza. Credo nella vita frenetica e nel divano, in un buon libro e in una pizza con gli amici. Credo nella fatica e negli obbiettivi che uno si prefigge. E... credo in uno, nessuno e centomila, io.... Si, si, proprio così... credo in tante cose in alcuni giorni e in altri non credo a niente. Ma in quasi tutti i giorni mi resta quel, non so come chiamarlo... istinto? Si, può andare, mi resta quell'istinto di sopravvivenza che mi grida un bel scandito: " cre-di-ci"

24/05/09

Disordine Notturno

di Cristina Taliento


"Non dire che mi stai ascoltando se non mi stai ascoltando"; "No, parla... anche se chiudo gli occhi ti sento"; "Allora... ho perso il filo del discorso... che stavo dicendo? Ah si! Poi, alla fine, sono andati e... ohi! Ti sei addormentata? Pronto? si...ciao"


Dietro al bancone dell'Osteria la Volpe aveva girato la sedia e si era seduta con le gambe aperte appoggiando il gomito destro sullo schienale mentre l'altro faceva su e giù insieme al bicchiere di vodka che stringeva nella sua lurida zampa.
"Mi scussi sign..o...rinna- disse ubriaco- pottreei ave...?re un altro bicch..ie?re?".
Monna Lisa era stata assunta dal proprietario perchè vantava di avere una certa fama che avrebbe di sicuro attirato numerosi clienti, ma quando si trovava a dover discutere con tali ubriaconi squattrinati si adirava dentro e sfoderava uno sguardo truce, ma mascherato fedelmente da un velo d'indifferenza. In silenzio versò la vodka nel bicchiere della Volpe e ritornò a pulire i bicchieri con la manica del suo vestito.
"G-graz-zie Ggioconda, metta p-p-ure sul conto di messer Pinocchio" balbettò la Volpe con un ghigno in faccia, forse concepito come un sorriso.
Ad un tratto le porte dell'Osteria si spalancarono e un uomo avvolto in una toga bianca parlava ad alta voce e gesticolando.
"Eccone un altro- squittì stizzita Olivia mentre apriva una scatola di spinaci per Braccio di Ferro- questi oratori greci che credono di saperne più degli altri. Scocciatori, ecco cosa sono".
L'uomo continuava a dire:
" Hic, hic sunt in nostro numero, huis urbis..."
"Ma che sta dicendo, ehi! Voglio sapere che sta dicendo! Tu!- esclamò l'Urlo di Munch indicando un giovinetto dai capelli blu e la pelle gialla chiamato Milhouse- Tu! Traduci!"
Milhouse aprì lo zaino, tirò fuori il Vocabolario della Lingua Latina e sfogliando repentinamente, lentamente diceva:
"Qui, sono qui, tra la folla delle nostre... città"
"patres conscripti, qui de nostru interitu..." gridava Cicerone.
"i senatori, coloro che...alla nostra, no... per la nostra... distruzione..."
"qui de huis orbis atque adeo de orbis terrarum exito cogitant."
"che progettano... per la nostra distruzione, coloro che progettano... per la fine di questa città e soprattutto- qui Milhouse s'interruppe vedendo che l'oratore si era bloccato per creare suspense- per la fine del mondo intero".
L'Urlo di Munch si atteggiò la faccia alla sua posa preferita; la Volpe scoppiò in una risata convulsa, alternata con una tosse da cane ubriaco; Olivia prese Pisellino e uscì dall'Osteria annoiata; Monna Lisa sbadigliò enigmaticamente.
Ma una donna, profondamente scossa da quelle parole, aveva il viso rigato da lacrime e lo sguardo perso nel vuoto. Il capitano Achab, che fino ad allora era rimasto in disparte evitando di incontrare gente che gli avesse chiesto a che punto fosse con la ricerca di Moby Dick, andò dalla donna, le prese la mano e mormorò:
"Mia cara, dolce, fedele Penelope... tu non sai quanto io sia rimasto addolorato nel vedere le tue leggiadre lacrime sgoragare dai tuoi immensi e sconfinati occhi. Perchè piangete, milady? Concedetemi, piuttosto, questo ballo".
L'Osteria si tramutò in una discoteca che brulicava di Oche, Maiali, Papere ed Elefanti. Penelope ed Achab iniziarono e ballare, ma le Oche e i Maiali pestavano i piedi alla signora e non chiedevano scusa anzi starnazzavano: " Ma chi è questa? Come si permette a non essere oca come noi?"
La discoteca sparì, Penelope e Achab sparirono, rimasero le Oche e i Maiali che continuavano a ballare Gioca Juer fino a quando il dj gridò "Superman" e tutte le oche caddero esauste sul pavimento con il becco rivolto al soffitto.


Sbatto gli occhi ripetutamente, ore 3. 46 "però... tutte quelle persone mi sembrava di averle già viste".

12/05/09

Radici per colazione

di Cristina Taliento



Non ho nessun certificato nella tasca del giubbotto, ma credo di essere uscita da quella fase complicata dell'American Dream e anche se non posso dirlo con certezza, perchè sono la regina della volubilità, ho scoperto di aver "messo le radici" sulla mia terra. Anzi, sono stati gli ulivi della mia regione ad attorcigliare le loro radici nodose intorno ai miei piedi e ad impedirmi di scappare, anche solo con la fantasia. Un po' come un'illustrazione del Piccolo Principe, quando Antoine de Saint- Exupery disegna il pianeta B-612 completamente ricoperto dalle radici di 3 enormi baobab. Ecco, io sono il pianeta.

Prima di Natale andavo avidamente in cerca degli Accordi Internazionali tra Italia e Canada per procurarmi in fretta e furia i documenti che servivano per l'espatrio. Naturalmente avrei dovuto comunque aspettare altri 3 anni prima del diploma, ma l'immagine di me che vagava sperduta nei boschi canadesi, con il cappello da esploratore e la bussola smagnetizzata fra le dita, era più vivida che mai.
Non so se saranno stati i consecutivi viaggi, che mi hanno fatto scorrere l'Italia sotto il finestrino, a farmi cambiare idea. Forse è tutta colpa delle idee nazionalistiche che mi hanno corteggiato la ragione o di quella specie di gioia che saliva quando la collina diventava pianura e quando dall'autostrada in discesa si iniziavano a vedere i primi cartelli blu che sembrava dicessero "ti sei decisa a tornare, idiota". Si, probabilmente, tutte queste cose insieme.
Qualcuno ha detto che dopo Natale il mio cervello è cresciuto di qualche taglia e, cavolo grazie, deve essere per questo se ho messo a fuoco un po' di cose.
Ho capito che non ci sono posti più belli di altri, ci sono solo posti che rubano un pezzo di te; ho capito che chi dice di odiare la propria terra mente, non è quella ad essere sbagliata; ho sperimentato che camminare a piedi nudi sulla riva del mare, con i jeans rigirati sulle ginocchia, respirando con lo stesso ritmo dell'onda del mare che va avanti e si ritira, è una sensazione indelebile che non la cancelli neanche con un centinaio di salti nel vuoto. Ho imparato che i fiori di campo crescono anche nella cenere, che i gabbiani mangiano decine di pesci al giorno, che posso andare ovunque, girare il mondo spudoratamente, salire su tutte le metropolitane delle grandi città, scalare monti innevati, andare per mari a caccia di balene bianche, attraversare il Polo Nord... posso fare tutte queste cose, ma avrò sempre una zolla di terra, della mia terra, nella tasca del giubbotto.

08/05/09

Luci di periferia

di Cristina Taliento




Avevi capito che quella serie di "Che ne so?" non ti avrebbe fatto scagionare, così chiedesti una sigaretta e confessasti in fretta. Ti assunsero in carcere senza farti troppi complimenti, ma non smettevi di mostrare il tuo sorriso da cane: sapevi che era roba di un paio di mesi o poco più. Eri nato randagio, al limite della periferia, rubavi come le gazze e ti guardavi alle spalle con lo specchietto di quella tua bella; ci sapevi fare con i lucchetti e quando veniva la sera ti sedevi sui gradini, chiudevi gli occhi e soffiavi nell'armonica un motivetto che richiamava "Blowing in the wind".

Poi, quando il tuo piede si stancava di battere il tempo, ti avvicinavi alla strada e da lontano vedevi sfrecciare le prime auto sulle luci dei palazzi in costruzione e i tuoi occhi estasiati rimanevano fissi su quelle vita che non assomigliavano alla tua.

E adesso forse ti sarai fatto sposare da un pugno di banconote o da un cuore che già ha amato e che con te cerca solo un po' di calore; adesso il tuo sorriso è migliorato, ma quando sorridi i tuoi occhi sono spenti e sulla guancia si forma una ruga: segno che gli anni passano e che i tuoi sono solo falsi sorrisi di cortesia da porgere su piatti d'avorio ai signori che chiami amici.

Adesso ti vergogni a pensare al passato e chissà se avrai dimenticato le richieste d'aiuto che facevi ai più vicini quando c'erano troppe taglie sulla tua testa.

Ma sempre meglio di adesso che vai girando come un principe in carrozza, non sei nessuno e fai il di tutto pur di sembrare qualcosa. Adesso vai a cena con il figlio del commissario, lo stesso che guardavi dalle sbarre, firmi contratti con la tua penna d'oro e sei il maestro dell'ipocrisia. Pedalavi come un diavolo e adesso guardi con ribrezzo i sedili dei tram. Però, prima di andare a letto, quando dall'alto della tua finestra guardi il traffico salire sulla strada, ti saetta l'immagine di un ragazzino un po' lupo e un po' agnello e triste chiudi le tende, pensando che non era quello il sogno che timidamente ti narravi.

01/05/09

Racconto

di Cristina Taliento




Lo schermo del televisore è invaso da ignote celebrità che cantano nel nome del lavoro. Qualcuno si prenota il primo articolo della Costituzione per urlarlo e applauderlo, acutizzando ancor di più la voce sulle parole "democratica" e "lavoro". Io sento, non ascolto. In realtà sto ascoltando il rumore della mia fantasia che graffia sulla realtà. Poi sorrido, mi giro di scatto e mi rivolgo a mio fratello: "Ma te lo immagini l'uomo ragno, seduto con le braccia incrociate sul petto e lo sguardo fisso sul pavimento, con il costume e la maschera ancora addosso dalla sera prima, mentre aspetta il suo turno all'ufficio di collacamento?"
Mio fratello sgrana gli occhi e fa: "Che cos'è l'ufficio di collocamento?" Poi, nell'istante in cui apro la bocca per rispodergli, mi stoppa e dubbioso aggiunge: "E che cosa deve fare l'uomo ragno all'ufficio di collocamento?"

Aspettate un attimo, non crediate che Peter Parker si sia alzato una mattina e abbia pensato di lavorare, nè che, mentre cambiava le cartucce di ragnatele, si sia deciso di abbandonare la sua caccia al crimine. Non lo avrebbe potuto fare perchè: a) lui un lavoro ce l'aveva già ; b) non avrebbe mai pensato di abbandonarlo.
Le ragioni, che lo avevano fatto saltare da un palazzo all'altro con una fretta repentina tale da impedirgli anche di cambiare gli abiti di supereroe ricercato, erano più semplici di quanto si possa credere. Il nostro amico si era stancato di vendere le proprie foto al signor Jameson e siccome i superpoteri non alleviano, se non peggiorano, i morsi della fame si era risoluto di cercare lavoro, qualcosa di non troppo impegnativo, qualcosa che gli avrebbe permesso di saltare sui binari paralleli di quell'altra vita.


Ed eccolo lì, l'uomo ragno, con il broncio visibile dalla maschera, attento a non incrociare lo sguardo di nessuno, le braccia intrecciate, dicevo, e quattro fogli stroppicciati di curriculum sulle ginocchia. Quando una voce lo chiama per nome gira tempestivamente la testa, troppi nemici l'avevano preso alle spalle, ma questa volta si tratta di una donna dalla postura rassicurante, che non nasconderebbe mai un coltello dietro la schiena, ma negli occhi le sfolgora una luce... il riflesso di una lama affilata da più tempo: l'astuzia.
L'uomo ragno, un po' invecchiato e saggio, le porge la mano blu e, per imbarazzo non per arroganza, non pronuncia il noto nome. La donna prende a far domande, legge il curriculum avidamente, gira le pagine con dita affilate appesantite dall'oro di tre anelli , modella la sua bocca ad una smorfia concepita come un sorriso, guarda gli occhi dell'uomo ragno circondati dal rosso della maschera. Sovrappone i fogli sparsi, li impila in verticale e li ripone in un cassetto.
"Le faremo sapere, signor... si, le faremo sapere." Mostra i denti bianchi macchiati dal rossetto rosso sangue, non si alza dalla sua sedia.
L'uomo ragno borbotta qualcosa, esce dalla stanza a testa bassa e rimpiange che il suo costume non abbia tasche perchè ora non sa dove mettere le mani e quando passa dalla sala d'attesa tutti lo guardano in quella sua versione imbarazzata, con le braccia ciondoloni. Una volta fuori, libera dal suo polso una corda di ragnatele e la sua figura vola nera davanti all'arancia infuocata del tramonto.